
Narratologie del potere. Eco, Nixon, il western e Trump
Morfologia della bugia. Echeggiando volutamente il miglior Propp, questo articolo di Umberto Eco, poi incluso nella raccolta Dalla periferia all’impero, commentava “a caldo” il discorso del 30 aprile 1973 con cui l’allora presidente degli Stati Uniti Richard Nixon cercò di giustificarsi da tutte le accuse e le voci che lo volevano direttamente coinvolto nello scandalo del Watergate. Era ormai quasi un anno che, grazie ai due reporter del Washington Post Bob Woodward e Carl Bernstein, l’opinione pubblica americana era a conoscenza del fatto che alcuni uomini della CIA e dello staff presidenziale avevano praticato attività di spionaggio ai danni del partito democratico, allora all’opposizione, facendo così venire alla luce una prassi illegale di spionaggio e intercettazione che i repubblicani avevano adottato per restare al potere, continuare la guerra del Vietnam e rieleggere Nixon; ma erano solo pochi mesi che i sospetti erano arrivati a lambire la figura stessa del presidente, sospetti che lo avrebbero portato, di lì a un anno, a dimettersi dalla carica.
Quando l’effettivo coinvolgimento di Nixon nel complotto spionistico era ancora tutto da verificare, nel suo articolo Umberto Eco si rallegrava di come il presidente degli Stati Uniti si sia sentito in dovere di giustificarsi in un discorso televisivo e chiarire i margini del suo coinvolgimento nel Watergate che, in quel momento, era ancora un “semplice sospetto”; ma Eco non mancava di notare il fatto che “ciò che limita questi vistosi aspetti di un rapporto democratico inconcepibile a casa nostra è che il modo in cui Nixon, almeno provvisoriamente, si è tratto di impaccio ricalca gli schemi tradizionali delle comunicazioni di massa”.
C’è poco da fare: Umberto Eco era un semiologo, anzi un irripetibile remix tra un medioevalista e un semiologo, e anche quando andava a trattare di episodi di attualità non poteva non tracciare un discorso semiotico, e morfologico. Era stato il francese Roland Barthes a proporre un modello di semiotica che di fatto si presentava come una vera e propria critica della società; ma anche Eco, in questa e in innumerevoli altre occasioni ha saputo sfruttare la semiotica e anche la narratologia per compiere un’altrettanto incisiva critica del potere e del suo linguaggio. E di questo modello critico la Morfologia del potere è uno degli esempi più lampanti.

Umberto Eco voleva andare a decostruire il “calcolo narrativo” alla base del discorso televisivo del presidente, voleva dimostrare come “Nixon è andato a ripescare nell’inconscio narrativo dei suoi ascoltatori altre storie più antiche” – e così si ritrova a tracciare una tabella che mette a confronto la retorica dello speech di Nixon con le strutture narrative di Cappuccetto Rosso, del western e anche della rielaborazione patriottica dell’assalto a Pearl Harbour.
La prima colonna a sinistra elenca le “funzioni”, attingendo a piene mani dalle teorie di Vladimir Propp: ci sono in partenza un eroe, una proibizione e un cattivo; in buona fede, l’eroe viola l’interdizione, e questo porta a una “lotta”, al termine della quale l’eroe non può che vincere, ristabilendo i precedenti valori.

È sulla base di questa tabella che si intavola tutto il discorso dell’articolo. Agli occhi di Umberto Eco, la stampa americana, e nello specifico l’inchiesta del Washington Post ritratta al cinema in Tutti gli uomini del presidente, ha adottato un modello da western, proponendosi come lo sceriffo venuto a riportare la pace nella comunità, punendo e svergognando di fronte all’opinione pubblica nazionale il presidente che, invece di farsi garante della democrazia come suo mandato, aveva cercato di accumulare uno strapotere in seno alla Casa Bianca.
A questa retorica del Washington Post e di tutto il Quarto Potere, Richard Nixon rispose in diretta televisiva tentando una vera e propria “sostituzione di pedine”, prendendosi la responsabilità di quanto accaduto ma allontanando da sé ogni colpa personale. “Nixon ha indubbiamente compiuto un capolavoro di manipolazione retorica. Ha calcolato di aver di fronte un pubblico abituato alla narrativa delle comunicazioni di massa e ha sostituito una storia con un’altra storia egualmente avvincente”. Nixon non negava le colpe dei suoi collaboratori: ma lasciava intendere di essersi semplicemente fidato troppo, di aver scelto di farsi affiancare da personaggi “sconsiderati” solo perché troppo occupato a supportare la causa americana nella guerra del Vietnam e nelle trattative con la Cina. Da questo punto di vista, la stampa americana ha assolto il suo dovere professionale di informare i cittadini, ma ha anche suscitato un pericoloso clima di sospetto. “La sventura vera è stato il rischio che il presidente perdesse credibilità e gli americani mettessero in dubbio la bontà del suo sistema”.

Nixon mise su tutta questa contronarrazione, per ribaltare le accuse che sempre più apertamente gli venivano rivolte – ma la sua parola non bastò: le statistiche non mentono. “Se prima del discorso televisivo una piccola percentuale di americani sospettava di Nixon, dopo il discorso questa percentuale è enormemente cresciuta e ha superato il cinquanta su cento. Perché?”. La ragione è semplice: durante la diretta, Nixon non irradiava sicurezza, ma imbarazzo, paura, tensione. “Una storia così bella e a lieto fine era detta da un uomo spaventato”. Lo avrebbe mostrato bene anche il Nixon – Gli intrighi del potere di Oliver Stone, in cui il presidente, interpretato da Anthony Hopkins, veniva mostrato in difficoltà con i discorsi televisivi sin dai tempi della sua prima sconfitta elettorale, quella contro Kennedy.
“Il discorso di Nixon è stata la rappresentazione visiva di una insicurezza, gestita dal ‘garante della sicurezza’. Così si è sospettato che quel Cappuccetto Rosso fosse in realtà un Ezechiele Lupo con la coda in fiamme. Perciò la stampa ha vinto il primo round”. E se Eco scriveva così nella primavera del 1973, a ridosso del primo discorso televisivo sui fatti del Watergate, il 9 agosto 1974, poco prima della seduta del Congresso che ne avrebbe decretato l’impeachment, Nixon si dimise – primo e ad oggi unico presidente nella storia degli Stati Uniti d’America a compiere questo gesto. La stampa, il cosiddetto Quarto Stato, non aveva vinto solo il primo round: aveva vinto l’intera partita – e impose a sua volta, per alcuni anni e con la complicità di Hollywood, il modello narrativo-retorico del giornalista d’inchiesta senza macchia e senza paura, capace di detronizzare sinanche il presidente degli USA, grazie alle sue indagini e alla sua ostinata ricerca della verità.

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Se il caso Watergate e l’impeachment di Nixon ormai appartengono alla Storia, e anche alla storia del cinema, il modello interpretativo proposto da Umberto Eco nella Morfologia della bugia è ancora di un’attualità disarmante. La presidenza Trump recentemente conclusasi può essere un ottimo campo di gioco su cui applicare questo modello.
Per tutta la durata della sua presidenza, fino ad arrivare ai faccia-a-faccia televisivi con il suo sfidante Joe Biden nell’autunno 2020 e oltre, sono usciti continuamente articoli che denunciavano delle evidenti bugie di Trump, sue gravi imprecisioni nelle dichiarazioni pubbliche, vere e proprie distorsioni della realtà che lanciava ai suoi supporters. Addirittura, nello stesso 2020 delle nuove elezioni presidenziali, è uscito Unfit: The Psychology of Donald Trump, un documentario di Dan Partland che senza alcun pelo sulla lingua intervistava diversi esperti psichiatrici e anche alcuni ex-collaboratori dello staff di The Donald, tutti concordi nell’affermare che Trump fosse un bugiardo patologico, con una tendenza ai margini della schizofrenia a manipolare la realtà e gli ascoltatori.

A ben vedere però, la Morfologia della bugia di Umberto Eco non si concentrava sulla bugia in sé, bensì sulle forme: vale a dire, sulle strutture retoriche e narrative su cui si appoggiava, in quel caso, l’evidente bugia in diretta nazionale pronunciata da Richard Nixon, ma a cui potevano far affidamento, in infiniti altri casi, molti discorsi di leader di ogni tipo e di tutto il mondo, e non per forza menzogneri in senso stretto. “Dietro il discorso dell’uomo politico, bisognerebbe ristabilire sempre la sua origine religiosa”, sentenziava dal canto suo Roland Barthes nelle Cronache. Alessandro Baricco oggi parlerebbe di storytelling, Umberto Eco, col suo approccio strutturale – e non strutturalista – già allora dalla lunga tradizione, preferiva tracciare una serie di figure e ricorrenze narrative.
È proprio sull’elemento retorico-narrativo che forse dovremmo soffermarci per analizzare retrospettivamente, e retrospettivamente decostruire, le narratologie del potere di Donald Trump: le modalità archetipiche, e per ciò stesso manipolatorie a livello di psicologia delle masse e psicologia del profondo, con cui ha conquistato il potere, ha mantenuto una dose significativa di consenso da parte dei supporters anche nei momenti più enigmatici dei quattro anni della sua presidenza, e ha continuato ad aizzare gli animi dei suoi elettori anche dopo la sconfitta a favore di Biden.
Sulla falsariga di Umberto Eco, si potrebbe individuare all’interno della retorica trumpiana una commistione ancora più incerta e radicale di quella che caratterizzava il discorso di Nixon in risposta alle insinuazioni della stampa sull’affaire Watergate. Per fare una lista non esaustiva, nel caso di Trump si potrebbe riconoscere una commistione certo morbosa tra lo storytelling imprenditoriale standard, quello del self-made man, fascinazioni supereroistiche, distorsioni messianiche, la solita vecchia retorica del Far West con lo sceriffo che viene a ripristinare la legge nella contea ai danni degli indiani o degli americani “indianizzatesi” e, più inaspettatamente, un sottotesto mosaico.

Il caso di Trump è rilevante, nella prospettiva di una critica degli archetipi, anche nella misura in cui mostra la pericolosità di ogni distorsione, la preoccupante ambiguità di ogni Eden o Terra Promessa che sia. Lo slogan con cui Trump è salito al potere, recentemente parodiato nel Don’t Look Up di Adam McKey, diceva proprio: “Make America Great Again”, rendiamo l’America di nuovo grande. Trump è stato, negli ultimi anni, il grande alfiere della Restaurazione, un concetto ben diverso dal tradizionale conservatorismo politico di destra – tant’è vero che diversi repubblicani “storici” del mondo politico americano, da Ted Cruz, almeno nei primi tempi, ad Arnold Schwarzenegger, hanno pubblicamente preso le distanze da lui, dichiarando che non avrebbero votato – o rivotato – per Trump.
In che cosa Trump riconduce a sé un archetipo mosaico, e in che cosa la figura di Mosè poteva lasciar presagire, post eventum, alcuni degli esiti più preoccupanti dei quattro anni di leadership trumpiana? Trump ha prospettato ai suoi elettori un vero e proprio mito, un mito foraggiato in larga misura dallo stesso cinema, l’American Dream: ha rievocato insomma un’America dall’incerta collocazione cronologica, una Great America che era davvero una terra delle opportunità, dei sogni, dei successi improvvisi. Questa America, nelle incerte logiche della retorica trumpiana, a partire da un non meglio definito momento della sua storia recente aveva iniziato a corrompersi, il suo mito aveva iniziato a decadere, da un lato per colpa dei democratici, dall’altro lato della crescente “infiltrazione” di migranti nel territorio statunitense. Che la Grande America vagheggiata da Trump e i suoi accoliti fosse un mito antistorico è abbastanza lampante; e, se pure volessimo prendere per buona la tesi un po’ idealistica che per uno o due secoli dopo la Dichiarazione di Indipendenza gli USA siano stati una “Terra delle Opportunità” e della meritocrazia, non tarderemmo ad accorgerci che queste opportunità, questi successi arridevano de facto a migranti che dall’Europa si spostavano in America in cerca di fortuna.

Nonostante l’evidente fallacia di questi assunti, Trump è salito al potere, ha governato quattro anni dribblando tra alcuni dei più pesanti scandali della storia politica americana – situazioni in confronto alle quali lo stesso Watergate sembra una bravata – e tuttora gode di un forte consenso popolare, come dimostra l’occupazione del Congresso del 6 gennaio 2021 definita da alcuni commentatori come “la più grave crisi nella democrazia americana dai tempi della Guerra Civile”. Perché?
Non è difficile cogliere, dietro l’immaginario complessivo della retorica trumpiana, il trionfale riattivarsi contemporaneo di svariati archetipi delle narrazioni religiose del passato, con Trump che senza mezzi termini si è proposto come una figura crossroad tra un redivivo Mosè e il Messia laico lungamente atteso dall’America, almeno dall’America sedicente “patriottica”. Trump voleva riportare l’America a uno stato di grandeur risalente a un tempo mitico – così come Mosè seppe riportare gli Ebrei, ai tempi della cattività egiziana, a Canaan, la Terra Promessa ad Abramo e ai suoi discendenti dalla quale però generazioni prima gli ebrei, secondo il racconto biblico, erano emigrati, conservandone un vaghissimo ricordo. In ogni ritorno, in ogni Restaurazione, è insito però un germe di violenza: si vedano le guerre condotte da Giosuè e gli altri condottieri ebraici per riprendere materialmente possesso della “Terra Promessa”, si veda l’atteggiamento problematico e spesso farsesco assunto da Trump e dai suoi rispetto alle minoranze etniche e sociali degli States. La retorica noi/loro, yankees contro indiani, è pura sopravvivenza western, puro pensiero polare: il ritorno aperto visu di questi schematismi, dopo decenni di relativa latenza, è indice tanto di una contingente crisi storica, quanto di criticità presenti ab origine nel nostro immaginario collettivo e forse sinanche nelle strutture profonde del pensiero.
Per concludere. Trump ha saputo creare e cementare il consenso grazie a una retorica implacabile e a un uso spregiudicato ma intelligentissimo di tutta la macchina comunicativa, a cominciare dai social: Trump ha dimostrato una bravura fottuta nell’utilizzo e anche nel fraintendimento di una lunga serie di archetipi – archetipi sociali, politici, narrativi, sinanche archetipi religiosi quel giorno d’estate che volle dichiararsi scherzosamente “l’Eletto di Israele”. Grazie allo strapotere di queste narrazioni opportunamente distorte anche adesso che ha lasciato la Casa Bianca resta un pericoloso precedente capace da solo di mettere in forse la tenuta della democrazia occidentale per i futuri decenni.

Nixon mentiva, e mentiva innanzitutto per discolparsi: Trump manipola, prima ancora di mentire. Nell’interregno tra i due, sicuramente i presidenti americani più controversi della storia recente assieme a Bush, l’emersione e il proliferare dei social network, che hanno aperto nuove questioni e nuove problematicità nella comunicazione politica e giornalistica, nella gradazione tra “verità” e “bugia”, nella soglia che separa il fatto avvenuto dalla comunicazione che se ne dà. Agli occhi di Eco già nel 1973 la contronarrazione “western” data da Nixon nel discorso televisivo del 30 aprile e il suo utilizzo degli “schemi tradizionali delle comunicazioni di massa” bastava a limitare e a mettere in crisi le buone prassi della tradizione democratica statunitense: la combinazione di manipolazione archetipica, fake news e bombardamento social messa in atto dalla macchina del potere trumpiano è l’estremizzazione di questo potenziale di crisi, inaugurato dalla televisione e portato al parossismo dagli smartphone e dai social network.
Di fronte a un simile problema, di fronte agli abissi manipolatori della retorica, la soluzione – forse deludente, certo non risolutiva, eppure ponderata, nella sua semplicità – resta la stessa indicata a suo tempo da Eco: tracciare schemi, strutture, tabelle di confronto, vedere in quali passaggi la comunicazione politica suona fin troppo vicina a un romanzo vittorioso, sotto quali aspetti invece diverge dalla prassi comunicativa tradizionale proponendo un ribaltamento di archetipi e strutture già consolidate. Come si dice in linguaggio memico, compiere questo genere di analisi non è molto, ma è un lavoro onesto: e ricorda anche l’antico legame etimologico tra ἀνάλυσις e la nozione “scioglimento”, risoluzione. Ma il potere – potere che è anche reciproco, sociale, endemico, prima ancora del verticale potere politico – si fonda sempre di più sulle narrazioni e sull’impressione che di sé che si riesce a dare in una succinta combinazione di immagini e parole. E questo genere di decostruzione analitica, strutturale, di cui Eco fu campione, è una microscopica forma di resistenza da non sottovalutare. La semiotica come critica del potere, di nuovo. La narratologia come smascheramento e problematizzazione.
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