
La responsabilità dello sguardo – L’atto di vedere secondo Wim Wenders
“Immagine. Nella sfera amorosa, le ferite più dolorose sono causate più da ciò che si vede che non da ciò che si sa”. Da questo passaggio dei Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes prende le mosse L’atto di vedere, storico e influente saggio di Wim Wenders datato 1992 che, dopo una prima edizione in italiano per Ubulibri, viene adesso riportato in libreria da Meltemi.
Classe 1945, attivo dal finire degli anni sessanta, Wim Wenders rappresenta assieme a Werner Herzog il maggiore esponente del Nuovo Cinema Tedesco. Ha scritto e diretto alcune delle pagine più notevoli del cinema d’autore del secondo Novecento, con titoli quali Alice nella città, Falso movimento, Paris, Texas e Il cielo sopra Berlino, che si alternano nel giro di pochi anni nella sua filmografia, mentre i suoi maggiori successi del decennio appena finito sono stati due documentari, Pina e Il sale nella terra.
E anche se nel frattempo ha dato alle stampe anche altri contributi teorici – ad esempio I pixel di Cézanne, edito in Italia dalla Contrasto – il suo L’atto di vedere resta un importante viatico per chiunque voglia approfondire, con sguardo critico, la sua concezione del cinema e delle arti in generale.

Benché ormai vecchio di trent’anni, tutto si può dire se non che L’atto di vedere manchi di attualità. Il libro è frutto di un innesto di diversi materiali – gran parte dei capitoli sono lunghe interviste rilasciate da Wenders, ma ci sono anche note di regia, bozze di trattamenti e anche il testo di una conferenza da lui tenuta a Tokyo sul tema dell’alta definizione – ma ricorrente nelle sue pagine è la preoccupazione per il crescente strapotere delle immagini che la civiltà contemporanea ha scelto di subire. “
Dover subire questa inflazione di immagini rappresenta la più grave malattia della civiltà. Nell’Ottocento esistevano soltanto i dipinti. A un certo punto nacque la fotografia, poi venne il cinema e infine l’immagine elettronica. Oggi siamo a ogni ora esposti a una overdose visiva”, denunciava Wenders nel corso di una lunga intervista, trasmessa peraltro in prima battuta sulla televisione tedesca nell’estate 1991. “Tuttavia proprio il cinema, grazie allo sforzo da cui nasce ogni singola inquadratura, rappresenta ancora un ultimo bastione”, di quella potenzialità che l’immagine ha “di farsi verità”, concludeva il regista.
L’atto di vedere venne pubblicato da Wenders nel 1992. Questa data rappresenta un vero e proprio spartiacque nel percorso cinematografico di Wenders, perché nemmeno un anno prima aveva terminato il lavoro su Fino alla fine del mondo. Anche se meno noto rispetto ad altri suoi film, Fino alla fine del mondo rappresenta tuttora il tassello più “monumentale” della carriera di Wenders, in road movie portato al parossismo e alla metacinematograficità: girato su tre continenti con un budget di venti milioni di dollari, Fino alla fine del mondo omaggia e al tempo stesso contesta i B-movies della fantascienza classica americana portando avanti una notevole riflessione sullo sguardo, sul sogno e sulla possibilità di registrazione delle immagini. L’atto di vedere – che si apre proprio con il primo trattamento del film – rappresenta il complemento teorico a questa riflessione, la sua verbalizzazione.

Nella cornice di un’apocalisse imminente e potenziale, che pure non si verificherà mai, Fino alla fine del mondo ruota attorno a un fantascientifico congegno tecnologico, una sorta di macchina da presa potenziata con cui si possono registrare al tempo stesso delle immagini dell’ambiente circostante e gli impulsi cerebrali provati dall’operatore nel momento di vederle, in modo da poterle trasmettere come pensieri innestati nel cervello dei ciechi; nell’ultima parte del film, questo dispositivo viene impiegato addirittura per registrare e rivedere i sogni.
Il 1992 de L’atto di vedere non rappresenta uno spartiacque solo per la carriera di Wenders, ma anche per la storia della sua nativa Germania: si è infatti ancora all’indomani della caduta del Muro di Berlino, ai primi passi del processo di riunificazione delle due Germanie. Anche se in una delle interviste il regista e il suo interlocutore si intrattengono a discutere proprio del fatto che Wenders, pur avendo esordito negli anni attorno al Sessantotto, non ha mai voluto “politicizzare” i suoi film, da L’atto di vedere si trae anche una lucida e personalissima analisi della società, del mondo occidentale, della sua politica, e della posizione del cinema in questa costellazione. In questa direzione assume particolare importanza l’affermazione di Wenders secondo cui “per gli americani, soprattutto, sono un regista tedesco, ma per me stesso sono indubbiamente e irrevocabilmente un regista europeo”.
Un po’ come rivedere oggi il Film Blu di Kieślowski, leggere L’atto di vedere in questa riedizione a trent’anni dalla sua uscita rappresenta un faccia a faccia con una vera e propria radiografia della storia, con le speranze sfumate di un passato che nel 1992 di Wenders era ancora un futuro. E se Wenders, produttore oltre che regista di tutti i suoi film, auspicava uno sviluppo in senso multinazionale dell’industria cinematografica europea, ad oggi non si può che registrare una totale crisi nella stessa: se già nelle cinematografie nazionali i film che sanno coniugare un notevole risultato artistico con incassi altrettanto buoni si contano sulle dita di una mano, parlare dell’ideale di un “cinema europeo” come faceva Wenders nei primi anni novanta è semplicemente impossibile.

L’atto di vedere non teme neanche le affermazioni forti. Addirittura in un’altra delle interviste racchiuse nel volume vi si legge che ogni film “ovviamente è un atto di violenza, o rischia di diventarlo in ogni tappa del suo processo”: “A film terminato, nel momento in cui lo si proietta, è un atto di violenza se, anziché offrire allo spettatore immagini da vedere liberamente”, il film “prescrive loro ciò che devono vedere”.
Wenders arriva così a formulare l’ideale di film come Apertura – perché la manipolazione è il “rischio latente nel cinema”, e “la manipolazione è violenza. Lungi dal deresponsabilizzare i registi, questa consapevolezza deve tramutarsi, secondo Wenders, in un atteggiamento morale nei confronti dell’immagine e della visione.“ Einstellung significa al contempo ‘inquadratura cinematografica’, ‘posizione’ e ‘atteggiamento verso qualsiasi fenomeno’”, si legge in un altro passaggio del libro: come in una qualsiasi pagina di Heidegger, Wenders nasconde dietro una comune etimologia la sua personalissima idea di cinema. “Alla hybris del guardare immagini deve subentrare la consapevolezza di cosa possa implicare la condivisione di una profonda esperienza estetica del mondo”, è il suo imperativo kantiano.

“Era fatale che il cinema, con la crisi dell’immagine-azione, passasse attraverso malinconiche riflessioni hegeliane sulla propria morte; che, non avendo più storie da raccontare, prendesse sé stesso a oggetto e potesse raccontare ormai soltanto la propria storia (Wenders”). Se con L’atto di vedere l’auteur si prende il vezzo di filosofeggiare sul suo stesso cinema, con queste parole il filosofo francese Gilles Deleuze affrontava e liquidava la filmografia di Wenders, in quell’Immagine-tempo datata 1985.
Hitchcock, Antonioni, Kubrick e, più giovane, Wenders: alcuni dei maggiori registi della storia sono stati letteralmente ossessionati dall’atto di vedere, e dalle sue potenzialità epistemologiche e metacinematografiche. Se il finale di Professione: Reporter di Michelangelo Antonioni – un autore con cui non per nulla Wenders avrebbe tentato il curioso esperimento di regia a due rappresentato da Al di là delle nuvole, pochi anni dopo L’atto di vedere – travalica abbondantemente per potenza visiva e concettuale tutto quello che Wenders può dire o scrivere sulla crisi dell’immagine e sulla responsabilità dello sguardo, L’atto di vedere resta una Einstellung che ha ancora molto da dire, in una stagione della storia del cinema in cui i registi sembrano aver abbandonato o forse addirittura respinto la necessità di una teoresi.

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