
Blow-Up: Storia di un osservatore tra simulacro e realtà
Quando si racconta una storia, spesso si omettono dei dettagli ritenuti poco importanti. Ma a volte anche la spiegazione più minuziosa e pedissequa può portare a un vicolo cieco, a un’illusione di realtà. Blow-Up, capolavoro di Michelangelo Antonioni del 1966, si basa proprio su questo concetto.
Prima esperienza all’estero per il regista ferrarese, il film è tratto liberamente dal racconto Le bave del diavolo di Julio Cortázar e narra una storia ordinaria: nel pieno contesto della Swinging London, tra le varie Twiggy in minigonna, i festini a base di droghe leggere e i tagli di capelli questionabili della nuova gioventù, un fotografo di moda scopre una scena di adulterio e si ritrova coinvolto suo malgrado in un intreccio giallo dai risvolti drammatici. Semplice, no?

Eppure i titoli di testa danno già un’idea della stratificazione di significati che troveremo nella pellicola, sia per come sono presentati, sia per quello che mostrano: sulla colonna sonora di Herbie Hancock, vediamo un esteso prato verde, sul quale si aprono le scritte dei titoli. Queste, però, fungono da mascherino, rivelando al loro interno delle immagini in movimento. La storia non è ancora iniziata ed è già possibile trovare tre dimensioni spaziali su cui essa si sviluppa: il prato della realtà superficiale, i titoli di testa che simboleggiano la membrana della finzione cinematografica e le immagini oltre, di una realtà ancora da decifrare.

Immediatamente dopo, si ha l’introduzione del personaggio principale: il fotografo Thomas, interpretato da David Hemmings, l’affascinante Marc Daly di Profondo Rosso (Dario Argento, 1975). Se la sua identità appare già come un mistero (dopotutto, viene visto uscire da un ospizio per i poveri e dirigersi verso una prestigiosa Rolls Royce), la sua personalità viene svelata mano a mano.
Thomas ritrae una visione del mondo completamente superficiale, specchio della generazione e della società in cui vive. Nonostante la sua ambizione sia quella di realizzare un libro fotografico sulle realtà quotidiane di Londra con un focus sulle classi sociali più povere, il suo unico interesse è quello di fare soldi, e allo stesso modo, sui set di moda tratta le modelle come oggetti utili solo al proprio guadagno, con freddezza e maleducazione (persino nelle situazioni dove l’intimità sembra raggiungere livelli carnali, come nella scena dell’accoppiamento simulato con Veruschka, top model celebre all’epoca).

È inoltre ossessionato da tutto ciò che lo circonda: più un requisito fondamentale che una qualità per un fotografo, osservatore per professione. Ma Antonioni, attraverso questa caratterizzazione del personaggio, sembra volerci dire che a essere osservato non è (solo) l’ambiente o il contesto sociale, ma l’osservatore stesso. Un profetico “Who watches the watchers?”, nato dalla penna di Giovenale e ripreso da Alan Moore, che descrive non solo Thomas, ma anche il giornalista David (Jack Nicholson) e il regista Niccolò (Tomas Milian), protagonisti dei successivi Professione: reporter (The Passenger, 1975) e Identificazione di una donna (1982).
Che siano oggetti o persone – come un’enorme elica in un negozio di antiquariato o le due ragazze che, pur di farsi fare delle foto, si intrufolano nel suo studio, giocando e flirtando con lui – Thomas è continuamente distratto da una frenesia di vari elementi insignificanti nella trama, che contribuiscono ad allontanarlo dalla sua personale ricerca per tappe e dall’intreccio giallo del film.

Thomas, catturando su pellicola un momento di tenerezza tra due estranei in un parco, si ritrova infatti testimone involontario di un omicidio: proprio grazie allo sviluppo delle foto nella sua casa-studio e, in particolare, al processo di latensificazione (termine tecnico che indica l’ingrandimento di un particolare dell’immagine, traduzione dell’espressione inglese blow-up), il fotografo riesce a scorgere una mano con una pistola tra i cespugli del parco.
L’intero processo – tramite cui il fotografo riesce a vedere oltre la propria realtà, oltre ciò che il proprio mezzo di osservazione gli permette di vedere, oltre ciò che è visibile all’occhio umano – viene ritratto nei minimi dettagli, tappa per tappa, quasi come se fosse un’operazione sperimentale, un’originale applicazione del metodo scientifico.
La regia critica di Antonioni analizza ogni passaggio e si rende più che mai evidente non solo nel mostrare un processo di ricostruzione simile al montaggio cinematografico (quando Thomas stampa le foto, le appende in studio e cambia il loro ordine di successione), ma anche nel posizionarsi in punti impossibili per comunicare allo spettatore che quello a cui sta assistendo fa sempre parte di una finzione cinematografica.

A riprova della sua tesi, quando ritorna nel parco Thomas trova il cadavere dell’uomo che ha fotografato, ma molte cose ancora non quadrano: chi è? È legato in qualche modo alla pistola che Thomas è riuscito a catturare? La donna che era con lui c’entra qualcosa? Questi dubbi non troveranno mai una risposta, poiché sia lo spettatore, coinvolto nell’intreccio giallo, che Thomas, improvvisatosi detective, vengono continuamente sviati da nuove deviazioni di trama, nuovi affreschi sociali, nuovi icone di una generazione che bada solo alla superficialità e alle apparenze.
Ne è un valido esempio la sequenza del concerto degli Yardbirds (con dei giovanissimi Eric Clapton, Jeff Beck e Jimmy Page), o la scena del festino animato dalla droga, in cui Thomas ritrova Veruschka e ha con lei una conversazione che più di tutte le altre è capace di farsi ritratto dei nuovi giovani, trasandati e perduti, in mente e corpo.

Il finale, a questo punto, potrebbe solo essere inconcludente, ma è qui che la pellicola si trasforma in capolavoro: nell’emblematica sequenza finale, Thomas ritorna al parco, scoprendo con orrore che il cadavere è sparito. Dopo aver mostrato il luogo del delitto ormai spoglio da quella che sembra una soggettiva del fotografo, la macchina da presa si abbassa e lo inquadra, rendendolo presenza ingombrante non solo per la ripresa, ma per l’immedesimazione stessa dello spettatore: è la tecnica della falsa soggettiva, ricorrente nella poetica di Antonioni.
Più che mai perso, il protagonista ritrova quindi il gruppo di mimi già apparsi all’inizio del film e li osserva giocare una finta partita a tennis, senza pallina né racchette. I movimenti di macchina seguono il tragitto della pallina invisibile e, proprio mentre questa finisce sul prato, Thomas si vede costretto a partecipare alla pantomima: dopo aver posato la macchina fotografica (gesto simbolico, che enfatizza la rinuncia al mezzo che gli permette di vedere al di là della realtà, la rinuncia al suo stesso sguardo di fotografo), corre verso il punto dove è atterrata la pallina immaginaria, la recupera e la rilancia in campo.

È solo a questo punto che in lontananza si sentono i rumori delle racchette e della pallina che rimbalza, mentre l’inquadratura rimane fissa sul volto rassegnato e deluso di Thomas: è la realizzazione del trionfo della fantasia, della cancellazione dei confini tra sogno e realtà in una società dove le apparenze fanno da signore e tutto al di fuori dell’estetica sembra aver perso il proprio significato. La macchina da presa infine si allontana e Thomas scompare con una transizione, lasciando lo spettatore a chiedersi se quello che ha visto è accaduto davvero o se si sia trattato di una finzione nella finzione.
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