
Breve ma densa intervista a Emanuele Trevi
«piccolo schermo gigantesco» (Ottieri) è una rassegna di interviste, pubblicata su «Birdmen Magazine», a scrittori italiani contemporanei, a proposito della “mescolanza” di media, dell’influenza delle arti cinematografiche sulla narrativa, sulla poesia e sull’immaginario, della corrispondenza biunivoca dei mezzi. Nella sezione Spin-Off sono stati pubblicati articoli di approfondimento.
La prima serie, contraddistinta dall’illustrazione di Valentina Marcuzzo, ha coinvolto i seguenti scrittori: Filippo Tuena, Valerio Magrelli, Fabrizio Ottaviani, Tommaso Matano, Flavio Santi, Gilda Policastro, Filippo Ticozzi e Denis Brotto.
La seconda serie coinvolgerà prima di tutto i semifinalisti al Premio Strega 2021, per poi ampliare il corpus.
In copertina: Bande à parte di Jean-Luc Godard (1964)
Emanuele Trevi ha vinto la settantacinquesima edizione del Premio Strega con Due vite, romanzo pubblicato l’anno scorso da Neri Pozza (qui la mia recensione per lay0ut magazine). Autore apprezzato sia dalla critica sia dal pubblico, ha raggiunto il maggior premio con un libro non esattamente narrativo, direi più “sommessamente narrativo” e biografico (non autobiografico), dedicato a due amici e scrittori, Rocco Carbone e Pia Pera. Oltre a questo, pur volendo davvero io recuperare altri libri che hanno significato la sua affermazione (come Sogni e favole, per Ponte alle Grazie – che pubblicherà anche il suo prossimo), ho letto di suo solo Istruzioni per l’uso del lupo, esordio pubblicato nel 1994 per Castelvecchi (ora disponibile da Elliot). Qui Trevi auspica, in forma di lettera, un allontanamento dall’Accademia, non in senso lato ma come metafora di allontanamento dalla rigidità e dalla burocrazia a cui, molto spesso, l’Università italiana obbliga (e qui rivedo Birdmen, posizionatasi tra critica accademica e divulgativa, senza scendere a patti). Su tutto, si chiede perché la critica debba sembrare così falsamente ricercata, quando il “senso” dell’opera d’arte è il “lupo”. In quel lupo, neppure avendo io letto quel famoso libro di Roland Barthes che è La camera chiara, ho rivisto il punctum, cioè, forse, l’interpretazione intuitiva della fotografia che lo spettatore aggiunge allo studium, cioè il complesso dei significati “ricercati” della fotografia. Potrei assolutamente sbagliarmi. Però la ricerca di una connessione tra Barthes e Trevi non solo non è sterile ai fini di questo articolo, che vuole introdurre Trevi all’audiovisivo, ma in sé: recentemente, in prefazione a un libro di Hervé Guibert, L’immagine fantasma, pubblicato per la casa editrice Contrasto, Trevi richiama proprio in causa il critico francese per comprendere l’operazione, che consiste nel racconto (o nella descrizione) di fotografie non scattate o non sviluppate.
Proprio in questo testo (qui ripubblicato) la sensazione trova conferma. In effetti, tutto quello che sembra essere davvero urgente in Due vite è raccontato con una prosa descrittiva in assenza di immagini-oggetto di due individui purtroppo venuti a mancare, in assenza cioè di immagini “realizzate” (come sarebbe la fotografia); ci sono piuttosto quelle mentali, in via però di dissipamento. La sintassi di Trevi cerca l’impressione come forma di sopravvivenza altrui, perché ci riesca il volito vivus enniano? Ancora, non lo so. Ecco, domande su domande, ho provato a chiedere a Trevi, via mail, quali fossero i suoi rapporti con l’audiovisivo, sapendo pure che sarebbe riuscita, forse, una negazione dell’audiovisivo come antagonista della scrittura, o sua sostituzione. Lascio la parola a lui, però.

Birdmen si occupa principalmente di Cinema, Serie e Teatro. Quali sono i suoi rapporti con queste tre arti? Quali delle tre “frequenta” maggiormente? In che device guarda il cinema e le serie? Va a Teatro e al Cinema? È interessato alla realtà testuale delle tre arti?
Per il teatro lavoro molto regolarmente, è una specie di “estensione” molto naturale del lavoro letterario. Mi piace, mi ispira, in certi periodi fa bene lavorare assieme a qualcuno.
Come a tutti, mi è capitato di vedere molte serie, direi le più famose. Vado molto raramente al cinema, ma ho un bellissimo schermo e un impianto stereo abbastanza buono, non mi piace vedere le cose in modo rozzo come fa la gente in treno, odio la musica sentita male. Non mi capita mai di leggere una sceneggiatura, i testi teatrali sono testi letterari in senso pieno e dunque non valgono per questo discorso.
E che rapporti c’è tra il lei “scrittore” e l’audiovisivo, in particolare?
Nei miei libri c’è poco cinema, ma all’inizio di Sogni e favole ho fatto un esperimento soddisfacente su un vecchio cineclub e sul cinema di Tarkovskij. In generale il cinema che mi ha coinvolto è quello dei grandi autori del secondo Novecento, da Godard a Herzog, da Tarkovskij a Lynch. Oggi sicuramente fanno dei bei film, a volte ne vedo uno che mi piace, ma l’ultima estetica che ho compreso con empatia è quella di Lars Von Trier. Diciamo che ho perso contatto con il cinema da quando non vedo più “autori” in senso pieno, dotati di una specie di aura, di crisma che non c’è più. Ma non è un giudizio, è l’arte su cui sono più disinformato.
Per il cinema non mi interessa affatto lavorare perché il cinema e la letteratura in realtà sono arti concorrenti, io uso le parole per arrivare direttamente all’immaginazione del lettore, posso concepire un traduttore ma non l’infinita e imprevedibile serie di mediazioni che trasforma un primo abbozzo in un film. Insomma, con l’occasionale eccezione del teatro, io lavoro da solo, odio le riunioni, e tutte le trans-codificazioni in generale. Il teatro fa per me perché il lavoro della parola come io lo intendo rimane intatto anche nella messa in scena.

Quando ho pensato a questa serie di interviste avevo in mente la commistione di narrativa e cinema del Secondo Novecento. Adesso, mi sembra che piano piano si vada verso una “serializzazione” della prosa, considerando anche la vicinanza, di statuto, tra Serie e Letteratura (Urciuolo, su tutti – ed è la più giovane).
Non mi sembra il suo caso. La sua scrittura si nutre più di immagini “fisse” che di immagini in movimento. Penso a quanto le sia cara, mi è parso di capire, la fotografia. La mia domanda? Questa: se ho visto giusto, in che modo la scrittura letteraria e la fotografia, o l’immagine, per lei, sono in reciproca influenza?
Beh sì per le cose dette sopra concordo. Mi piace l’idea di un equivalente verbale di un’opera visiva, che abbia la sua autonomia. Questo si può fare anche con le immagini in movimento – ho letto un bellissimo libro di Geoff Dyer su Stalker di Tarkovskij per esempio. Ma l’importante (ed è molto difficoltoso!!!) è che le parole si liberino completamente del loro modello, diventando un’opera autonoma, perfettamente comprensibile da chi non hai visto quel film o quella fotografia: come fa Roland Barthes nella Camera chiara che è un libro su una foto che non si vede mai.
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