
Soltanto lei, eccetto me. Intervista a Filippo Polenchi sulla casa in fiamme

Filippo Polenchi, fiorentino, è uno scrittore italiano. Collabora con numerose riviste, tra cui minima&moralia, Nazione Indiana, Antinomie e La balena bianca. Nel 2021 è uscito per 66thand2nd il suo romanzo d’esordio, Figlio Fortunato, ben accolto dalla critica di settore. Esce adesso per la collana L’invisibile di Industria & Letteratura – collana “di narrativa breve (ma non troppo)” – il suo racconto La casa in fiamme. Dopo Giordano Meacci, che aveva inaugurato l’invisibile con il suo Cittadino Cane, abbiamo intervistato anche Polenchi sulla struttura del testo e sulle suggestioni visive e letterarie che da esso trasudano.
Dopo il romanzo Figlio Fortunato (66thand2nd) esce adesso per Industria & Letteratura il più breve La casa in fiamme. Quali sono stati i primi spunti che ti hanno portato a scrivere questo racconto lungo?
Questa storia viene da lontano. Sono più di dieci anni, infatti, che questa storia mi segue, o meglio: questo motore narrativo. Infatti, nel tempo, il racconto è mutato molto, passando, come tutta la mia scrittura del resto, da una ingenua sintassi puramente romanzesca fino alla scarnificazione attuale. Soltanto quand’ho capito che l’approdo della voce era questo – una giustapposizione di quadri, una specie di mystery play contemporaneo – ho capito che il racconto era pronto e maturo. Eppure, nonostante tutte le metamorfosi esistenziali e letterarie la dinamo narrativa della Casa tornava e tornava.
Tra dense riflessioni sulla noia – “per tutta la vita sono stato perseguito dalla noia: l’ho sempre percepita con una densità specifica, come un composto chimico estremamente duttile, adattabile, demoniaca” – e un perenne senso quasi ontologico di separazione che accompagna il protagonista, La casa in fiamme sembra cadere dalle parti di certo esistenzialismo letterario all’europea – fosse deforme, l’io narrante ricorderebbe i protagonisti di Beckett; ma la scrittura de La casa in fiamme è connotata da un minimalismo e una asciuttezza che invece ci porta nel cuore della letteratura americana recente. Quali sono, in generale, i tuoi autori di prosa di riferimento? Avevi qualche modello particolare in mente prima di scrivere La casa in fiamme?
Naturalmente un racconto che ci ha messo più di un decennio per avere una forma, per me, accettabile – e dunque degna di essere proposta a Martino Baldi, quando, in qualità di curatore della collana “L’invisibile”, mi ha interpellato – attira a sé magneti di varia provenienza. Beckett, senz’altro, ma anche Krasznahorkai e gli italiani che più amo, Giorgio Falco, Sabrina Ragucci, Davide Orecchio, Sergio Nelli… Tuttavia, se dovessi indicare alcuni poli, più decisivi di altri, che hanno mostrato con precisione il punctum dove il derma vulnerato chiedeva di essere esplorato farei i nomi di: Slavoj Zizek, Georges Didi-Huberman, i film del regista Albert Serra e soprattutto l’opera teatrale Il bambino sepolto di Sam Shepard.

L’immagine di una casa in fiamme è un ricorrente topos letterario e ancora più cinematografico: si potrebbero citare decine di titoli, di Dario Argento, di Andrej Tarkovskij, di David Lynch, in cui il climax del film è rappresentato dal rogo di una casa. Da cosa deriva per te questa fascinazione della casa in fiamme? Contava di più la potenza estetico-sacrificale dell’immagine, o le sue implicazioni simboliche, di tabula rasa del passato?
Il fuoco nella Casa si è sviluppato da solo, per autocombustione. È un fuoco letterario, meta-linguistico, che si è animato direttamente dalla pagina, come gli strambi segnali di Cosmo, l’ultimo romanzo di Gombrowicz, che appaiono casuali ma, per eccesso di bizzarria, compongono infine un quadro ben preciso. E così il fuoco è uscito fuori dagl’intingoli, dai bulbi infiammati di stanchezza del protagonista, dalle incessanti esplosioni stellari, dai roghi degli eretici, degli animatori dell’anti-Rinascimento…
Nel tuo libro l’immagine della casa che brucia, consumando e riducendo in cenere tutti i possessi e tutto il passato del protagonista, si trova effettivamente solo nell’esplosivo incipit, poi si sviluppa la vicenda tra il protagonista e le donne di un “bordello” contemporaneo che occupa gran parte del testo. Il finale lascia presagire la cacciata del protagonista e, forse, dopo l’ultima pagina, l’effettivo rogo della casa. Come sei andato costruendo questa struttura anticlimatica?
Ho seguito una struttura trascendentale, così come la espone Paul Schrader nel suo libro sul cinema di Bresson, Ozu e Dryer. Una forma trascendentale come la leggiamo nelle pagine di Bernanos, di Camus, in certo Dostoevskij…
Anche il bordello è un luogo stavolta più letterario che cinematografico, senza scordare titoli pure significativi come L’Apollonide di Bertrand Bonello. Scene se non libri interi sono stati ambientati all’interno delle proverbiali “case chiuse”, tra l’Ottocento e la prima metà del Novecento, raggiungendo un risultato forse indelebile con il capitolo del bordello nell’Ulisse di Joyce. Il senso di estraneità, di esclusione e autoesclusione, che permea il tuo romanzo ricorda se vogliamo il sogno del bordello di Baudelaire, più volte ricordato da Calasso. Cosa ha (ri)portato la tua attenzione verso questo genere di luoghi, adesso letterariamente meno ricorrente? Qual è secondo te la risonanza esistenziale ed emotiva che possono assumere, in letteratura, i bordelli?
Il bordello – letterario s’intende – è anestesia. L’interruzione del dolore, la protezione dal gelo. È una dimensione fittizia, artificiale, precaria: per questo è godibile soltanto tramite lo sguardo. L’eccitazione, come nella Storia dell’occhio di Bataille, sta esattamente entro il perimetro oftalmico. Una delle scene di ‘bordello’ che più mi hanno guidato nella scrittura di La casa in fiamme si tiene ne L’Educazione sentimentale di Flaubert: è una specie di cinema esclusivamente sonoro condotto da prostitute in vetrina, che anziché attirare nell’alcova i protagonisti scatenano il più lacerante dei what if: “e se non avessimo avuto niente di meglio?”.
Il tuo primo romanzo era stato pubblicato da 66thand2nd, La casa in fiamme esce per la collana L’invisibile di Industria & Letteratura, che già ha ospitato altri testi brevi di Giordano Meacci e Nicola Feninno. Come è nato e si è sviluppato il rapporto con l’editore?
Fin dai tempi di Figlio Fortunato, il mio primo romanzo, ho un debito con Martino Baldi, curatore della collana L’invisibile. Anzi, per dir meglio: Martino, in questi anni, ha assunto una specie di funzione angelica e protettiva nei confronti della mia fragile scrittura. Ha saputo individuare prima di altri il valore di quello che scrivevo – ammesso che un valore ci sia. È stato Martino Baldi il nume tutelare di questa operazione. La cura e, di nuovo, la sensibilità che ha infuso nella lettura del manoscritto originario e nel lavoro di editing successivo mi ha rivelato cose che già sapevo: Martino è quanto di meglio un autore possa aspettarsi per un proprio testo.
Se si può essere generici, ti trovi più a tuo agio con la letteratura “lunga” o con quella breve?
Non so se sentirmi più ‘a casa’ con la narrativa breve o con quella lunga: penso che il racconto debba raccontare l’abbrivio di una situazione potenzialmente eccedente, esorbitante, efflorescente. Eppure, il racconto deve, secondo me, fermarsi lì, all’innesco. Il romanzo, invece, dovrebbe, sempre secondo il mio parere parzialissimo, descrivere proprio l’impossibile chiusura dell’architettura avviata. Il racconto assiste all’accensione di una luce, o di un rogo; il romanzo testimonia l’inestinguibile fuoco che ha mangiato e sta mangiando la casa, il mondo, la realtà. Ma in fondo queste sono pose da letterato: chiunque scriva sa cosa fare, anche quando, e soprattutto, crede di non saperlo. Diciamo che ogni scrittore, prima o poi, trova cosa esplorare, dove perlustrare. Battere palmo a palmo le strade. Così funziona, per me.
Se potessi deciderlo tu, con quale sensazione vorresti che i lettori si risvegliassero, arrivati all’ultima pagina de La casa in fiamme?
Una precaria gratitudine.
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[…] il suo breve e contorto dispositivo narrativo. In occasione di una recente intervista rilasciata a Birdmen Magazine (da cui è tratta anche la citazione precedente), Polenchi ha parlato di La casa in fiamme come di […]