
Tonino Guerra – Tre momenti a dieci anni dalla morte
Un uomo cammina in campagna – ne vengono inquadrati solamente i piedi. Arriva sulla soglia di una casa colonica e poi ne sale le scale, pare inseguire un indefinibile ma disturbante ronzio, che ad ogni passo si fa più vicino. Entra in casa, in un salone all’antica: c’è una televisione accesa che non trasmette niente, se non il solito brusio di puntini bianco-neri che occupano lo schermo quando l’antenna non funziona. “Toh, nevica”, dice il vecchio romagnolo che stava seduto in casa.
Questa sequenza, facente parte di un breve documentario televisivo e ricordata anche da Piergiorgio Giacché nel collettaneo L’Italia secondo Fellini, esprime, nella sua semplicità, tutta la poetica del suo autore, Tonino Guerra. Definito l'”Omero della civiltà contadina” da Elsa Morante, Tonino Guerra era nato il 16 marzo del 1920 a Sant’Arcangelo di Romagna, e nella stessa Sant’Arcangelo è morto, novantadue anni dopo, il 21 marzo del 2012. Tonino Guerra nasce poeta e diventa sceneggiatore: reduce di guerra, sul finire degli anni quaranta fece leggere le sue prime poesie in dialetto romagnolo a Carlo Bo, che fu il suo primo padrino nel mondo letterario in cui nel giro di pochi anni si impose come una delle maggiori voci della rinascente tradizione popolare e dialettale italiana. Del 1953 è il trasferimento a Roma: sul finire del decennio inizia la sua prolifica attività di sceneggiatore per conto di altri registi e, dopo due film di Giuseppe De Santis, nel 1960 co-firma L’Avventura, il primo capolavoro di Michelangelo Antonioni.

L’Avventura è il primo grande titolo di una filmografia che annovera collaborazioni con tutti i maggiori cineasti europei: da Elio Petri a Francesco Rosi, da Alberto Lattuada a Vittorio De Seta, dai fratelli Taviani a Theo Angelopoulos. La collaborazione con Antonioni accompagnò quasi tutto il resto della carriera del maestro di Ferrara, fino ad arrivare ad Al di là delle nuvole e Il filo pericoloso delle cose, gli ultimi sgoccioli del percorso autoriale di Antonioni; altrettanto importante anche se più breve fu il sodalizio con Federico Fellini, iniziato nientemeno che con Amarcord e proseguito con E la nave va e Ginger e Fred.
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“Ho fatto una poesia stanotte”, dice, in fuori campo, la voce irsuta di Guerra, “l’ho fatta per te” – e il te in questione è Andrej Tarkovskij. “Io non so che cos’è una casa/Un cappotto? O è un ombrello se piove?/L’ho riempita di bottiglie stracci anatre di legno tende ventagli/Sembra che non voglia uscire mai. Allora è una gabbia?/Che chiude tutti quelli che passano/anche un uccello, come te, sporco di neve/Ma la roba che ci siamo detti/è così leggera/che non resta chiusa qui”.

Questo è uno dei tanti, preziosi scambi che si sentono in Tempo di Viaggio, il documentario che accompagnò Tonino Guerra e Andrej Tarkovskij nei sopralluoghi del film Nostalghia, girato dal regista sovietico interamente in Italia dopo aver preso la sofferta decisione di abbandonare il suo paese. Guerra nel 1977 si era sposato con Eleonora “Lora” Kreindlina, una donna russa, e il matrimonio aveva contribuito a rafforzare i suoi legami con l’intellighenzia dell’URSS: su proposta delle istituzioni cinematografiche sovietiche, con Antonioni concepì L’aquilone, “una favola per il terzo millennio” da girarsi in Kazakistan che poi sfumò. Al contrario Nostalghia, benché diretto da un regista osteggiato dalle autorità dell’URSS qual era Tarkovskij, venne realizzato, e rappresenta, nella sua inafferrabilità, uno dei capitoli quantomeno più originali della sua filmografia.
“Quale antenato parla in me?/Io non posso vivere contemporaneamente nella mia testa e nel mio corpo/Per questo non riesco ad essere una sola persona/Sono capace di sentirmi un’infinità di cose contemporaneamente… Bisogna tirare l’anima da tutte le parti come se fosse un lenzuolo dilatabile all’infinito/Se volete che il mondo vada avanti dobbiamo tenerci per mano/Ci dobbiamo mescolare ai cosiddetti sani e ai cosiddetti ammalati”. Per quanto la particolarissima sensibilità di Tarkovskij aleggi con toni particolarmente esasperati su Nostalghia, il primo dei suoi due “film dell’esilio”, ancora più cristologico del precedente Stalker, è fuori di dubbio che uno degli apporti di Guerra alla sceneggiatura del film va riconosciuto nella trattazione del tema della follia, incarnato dal co-protagonista Domenico. Con un elemento di attualità raro, almeno nei film di Tarkovskij, Nostalghia fa infatti chiaramente riferimento all’allora recente Legge Basaglia, che aveva portato di fatto alla chiusura dei tradizionali manicomi in Italia.

In una delle scene più memorabili del film, una folla di “matti” e anormali si raduna sulle scalinate di piazza del Campidoglio di Roma, dove Domenico, terminato il suo discorso, si immola in un sacrificio espiatorio, per ritrovare l’autenticità del contatto con la terra. E più che un monologo da film, quello di Domenico è un monologo poetico, in versi: una ragione in più per trovare profonda la traccia di Guerra sul personaggio, splendidamente interpretato dall’attore bergmaniano Erland Josephson.
“Dentro di me c’è la danza che partorisce il caos dei Taviani, c’è il greco e arabo Francesco Rosi”, disse una volta di sé Tonino Guerra. Sintesi parziale. Più che Tonino Guerra sui registi, forse qualcosa da dire ce l’hanno i registi su Tonino Guerra. “La condanna (o il privilegio?) di Tonino Guerra è di essere costretto ad andare sempre in giro con Tonino Guerra. Mi domando come faccia il primo, l’uomo, a sopportare senza un attimo di tregua la visione del mondo del secondo, il poeta”. Così Antonioni, che con il poeta romagnolo aveva condiviso decine di sceneggiature, realizzate o meno. Lo stesso Tarkovskij lasciò qualcosa di scritto su Tonino Guerra: “Tonino è rientrato. Che uomo straordinario, tenero e buono. Ingenuo come un bambino!”, annotò una volta nei suoi diari, pubblicati postumi con il titolo di Martirologio – e Tarkovskij era un uomo che raramente parlava bene di chi gli stava attorno, in quelle pagine private.
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“Ma ho paura di tornare a essere una persona normale, con una vita tranquilla, ordinata, dopo tanti orrori e tante libertà… Ho paura di tutto quello che ci toccherà fare per vivere in pace, in un cerchio familiare e sociale normale. Che sia troppo difficile. Ho paura che tutto quello che abbiamo passato rimanga l’unica avventura della nostra vita… Capisci cosa voglio dire?”. Un elemento della biografia di Tonino Guerra che non sempre viene sottolineato a dovere riguarda la sua esperienza come internato in un vero e proprio campo di concentramento in Germania, Troisdorf, dopo essere stato arrestato come antifascista. Il suo non era un campo di sterminio, era, almeno nel reparto dove lui era stato assegnato, un campo di lavoro: ma l’esperienza segnò profondamente Guerra, tanto più che, come avrebbe ricordato molti anni dopo, fu proprio nel Lager che iniziò a comporre poesie dialettali. “Mi ritrovai con alcuni romagnoli che ogni sera mi chiedevano di recitare qualcosa nel nostro dialetto. Allora scrissi per loro tutta una serie di poesie in romagnolo”.

Nel 1958, lo stesso anno in cui il Se questo è un uomo di Primo Levi veniva riscoperto grazie alla nuova edizione einaudiana, Guerra si ispirò liberamente alle sue esperienze a Troisdorf per scrivere il trattamento di un possibile film intitolato Makaroni. Benché mai trasposta sullo schermo, la sceneggiatura di Makaroni segnò l’inizio del suo sodalizio con Antonioni, prima ancora de L’Avventura. Adesso pubblicata nel volume de I film nel cassetto edito dalla Marsilio, Makaroni era una sceneggiatura “ancora” narrativa, che non risparmiava pathos e ancora non presentava quegli elementi di scarnificazione drammaturgica e di drammatizzazione concettuale che proprio a partire da L’Avventura si imposero, nel cinema antonioniano. Ma non vi mancavano passaggi di notevole spessore, come in quelle battute del protagonista Roberto, soffocato dall’ansia del ritorno, poste nelle ultime pagine del trattamento.
Se ci affidiamo alle testimonianze di Tarkovskij, o di Antonioni, Tonino Guerra, “normale”, non lo è stato più, non lo è stato mai: e, a prescindere dall’impossibile calcolo di quanto effettivamente l’esperienza nel Lager sia stata determinante per le sue future carriere di poeta e di sceneggiatore, il monologo di Domenico in Nostalghia si apre così a ulteriori sensi, quasi come volesse trasporre, mutatis mutandis, la condizione di internamento realmente provata dal suo (co-)ideatore. Il destino degli sceneggiatori che non diventano mai a loro volta registi è questo, è vano, se non impossibile – anche quando ci sono dichiarazioni esplicite dei diretti interessanti, ma Tonino Guerra questo narcisismo non lo aveva – stabilire con precisione qual è l’apporto del regista e qual è l’apporto del co-autore. Ma, se si ripercorre per un’ultima volta l’interezza della sua filmografia – non è difficile raggiungere la consapevolezza che la mano di Tonino Guerra debba essere stata determinante, per concepire alcuni dei maggiori capolavori del cinema italiano ed europeo.

In una delle sue ultime interviste, alla domanda canonica di quale delle molteplici espressioni della sua creatività – poesia, sceneggiatura, pittura, romanzi, documentari – gli avesse regalato le maggiori soddisfazioni, Tonino Guerra diede una risposta che è anche manifesto di stile: “le parole, sempre. La parola è mistero, immagine, racconto, nulla. Più vado avanti e più la amo squagliata, la parola che sta perdendo il suo significato e che è piena di tutto e di niente”. Per quel che può valere, Tonino Guerra morì il 21 marzo 2012, il primo giorno di primavera. E morì, ostinatamente, nello stesso paese in cui, novantadue anni prima, era nato. Giornata che – è forse retorico ricordarlo – è stata anche adottata per celebrare la Giornata Internazionale della Poesia.
Una breve lirica, non in dialetto stavolta ma in italiano, sembra condensare tutti i fili di giuntura e i ricami che abbiamo cercato di individuare lungo la vita e la produzione artistica di Tonino Guerra. Si intitola La farfalla:
Contento, proprio contento
sono stato molte volte nella vita
ma più di tutte quando
mi hanno liberato in Germania
che mi sono messo a guardare una farfalla
senza la voglia di mangiarla
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