
Intervista a Gilda Policastro – Piccolo schermo gigantesco
Illustrazione di Valentina Marcuzzo
«piccolo schermo gigantesco» (Ottieri) è una rassegna di interviste, pubblicata su «Birdmen Magazine», a scrittori italiani contemporanei, a proposito della “mescolanza” di media, dell’influenza delle arti cinematografiche sulla narrativa, sulla poesia e sull’immaginario, della corrispondenza biunivoca dei mezzi. L’obiettivo è critico. Perciò, a ciclo concluso, verrà elaborato uno scritto saggistico.
Gilda Policastro è scrittrice e critica letteraria. Ha collaborato con riviste accademiche e quotidiani (tra cui «Allegoria», «l’immaginazione», «Alias-il Manifesto», «la Lettura-Corriere della sera», «Pagina 99», «alfabeta2», «doppiozero»). Attualmente cura la “Bottega della poesia” per «La Repubblica-Roma» ed è redattrice del sito «Le parole e le cose». Dal 2016 tiene corsi di Poesia presso la Scuola di scrittura “Molly Bloom” (con sedi a Roma e Milano). Tra le sue pubblicazioni: i romanzi Il farmaco (Fandango 2010), Sotto (Fandango, 2013), Cella (Marsilio 2015); i libri di poesia Non come vita (Aragno 2013), Inattuali (Transeuropa 2016), Esercizi di vita pratica (Prufrock spa) e saggi tra cui la monografia su Sanguineti (Palumbo 2009) e Polemiche letterarie dai Novissimi ai lit-blog (Carocci, 2012). Di imminente pubblicazione un saggio sulla poesia contemporanea.
Buonasera Gilda, è un piacere per Birdmen intervistarla. Come sa, ci occupiamo di Cinema, Serie e Teatro. Quali sono i suoi rapporti con queste tre arti? Quali delle tre frequenta maggiormente?
Nell’ultimo decennio ho seguito abbastanza il teatro, non quanto vorrei, ma ho potuto apprezzare una scena molto viva, andando da realtà di richiamo internazionale come Fanny & Alexander, Valdoca o Castellucci ai Motus, Muta imago, Sotterraneo fino ad attori singoli come Matteo Angius, Silvia Calderoni, Federica Fracassi. La forza del teatro rimane viva soprattutto dove resta margine all’improvvisazione e all’interazione-provocazione (penso a Overload, lo spettacolo su Foster Wallace dei Sotterraneo, con un finale choc: non avevo mai assistito a un annegamento “in diretta” sul palco, né tantomeno ricevuto ortaggi da lanciare agli attori), altrimenti tanto vale andare al cinema. Rispetto al quale ho dei gusti molto diversi da quelli letterari, confesso. Ma questo accade perché di ogni forma d’arte mi interessa soprattutto il linguaggio e il linguaggio del cinema è essenzialmente il montaggio. Un regista di cui non perdo un film è Nolan, che stravolge le mie certezze estetiche (oltre che epistemologiche): non avrei mai pensato di potermi appassionare alla fantascienza prima di Interstellar o a un film di guerra prima di Dunkirk. Un po’ come Kubrick, Nolan prende il genere e ne fa quel che vuole, cioè cinema al suo meglio. Le serie le seguivo di più qualche anno fa, adesso mi sembrano davvero seriali in senso pop e deteriore e non ho provato interesse particolare verso nessuna di quelle di cui i miei contatti social hanno fatto un gran parlare negli ultimi due anni. Mi sento orfana di Don Draper e soprattutto degli Underwood, una coppia di cattivi che prova a smentire Aristotele (quando nella Poetica dice che l’eroe negativo ci allontanerebbe dall’adesione empatica). Sto seguendo anche L’amica geniale: trovo Costanzo molto bravo, le parti più deboli sono forse proprio i fuori campo in cui Alba Rohrwacher dà voce al testo: è lì che torna prepotente una lingua forzatamente inattuale e un immaginario premoderno (penso alla metafora di Lila-moglie, “rinchiusa in un recipiente di vetro come un veliero che naviga con le vele spiegate in uno spazio inaccessibile”: abusata, stantia, fuori di chiave, per dirla pirandellianamente). Un grande punto interrogativo sul successo planetario di questo tipo di scrittura/immaginario: il lunedì sera in tivù si può anche fare, ma la lettura richiede sforzo, ed è uno sforzo che personalmente non voglio dedicare al melodramma.
In particolare, questa serie di interviste si occupa di cinema e di serialità. Scriveremo serie e non serie tv perché, ad oggi, il supporto principale non è più il televisore. In che modo la sua produzione si relaziona con i film e con le serie? Quali sono i suoi gusti in ambito cinematografico? E in ambito seriale?
Come anticipavo, non guardo molto le serie, ultimamente. Mi sono piaciute le due che nominavo per le ricostruzioni d’ambiente, realistica e ironica in Mad men, fantapolitica in House of cards. Entrambe hanno dei momenti esplosivi in cui il tono medio che deve tenere viva la serialità di lungo corso vira verso un registro diverso e più drammatico [Spoiler]: con la malattia di Betty, la devota moglie anni Cinquanta (sed Sessanta) in piena ribellione nel primo caso, e la vera e propria svolta thriller nella seconda, dopo l’omicidio di Zoe Burns, la giornalista d’assalto. Fino a quel momento apicale, la serie procedeva piuttosto stancamente, poi c’è questo colpo di scena che fa precipitare il plot e cambia i personaggi, tinteggiandoli di un torbido nero senza redenzione (a differenza, dicevo, della tragedia dove il “troppo cattivo” l’avremmo detestato e il “troppo buono” ci avrebbe annoiato). In questa mescolanza di accadimenti più o meno imprevisti e sentimenti estremi o amplificati, parabole individuali ascendenti o più spesso discendenti, storia con la maiuscola quasi sempre di sfondo se non assente (a differenza che nel grande archetipo di Heimat) sta la chiave della buona riuscita attuale delle serie, che rimangono sempre e comunque dei prodotti commerciali.
Più raffinata era, almeno inizialmente, Black mirror, serie distopica che mutua dal cinema la fruibilità autonoma dei singoli episodi. Sono d’accordo con il parere diffuso per cui le prime due stagioni sono le più ispirate, con situazioni ben centrate e tutte variamente inquietanti, dal tema della gogna mediatica alla sopravvivenza virtuale post mortem alla candid camera della violenza. Poi si è ripetuta stancamente e non ha trovato nessun’altra chiave potente di reinvenzione e interpretazione del nostro contemporaneo. Con le serie, dal punto di vista della mia scrittura, non mi relaziono in alcun modo: anzi, rifuggo da sempre dall’idea di stesura del testo alla maniera di una sceneggiatura, pratica ormai molto diffusa. Quanto al cinema, ricordo che quando uscì il mio primo romanzo, Il farmaco, Andrea Cortellessa scrisse su “La Stampa” che i miei personaggi sembravano usciti dalla serie The idiots di von Trier. Regista che (credo come tutti) odio e amo, ma quella serie lì, in effetti mi mancava. C’è da dire che essenziale, per me, alla scrittura, è la rilettura (specie dei classici), quella seconda o terza (o decima) volta che invece mi concedo raramente per i film, anche quelli che ho più amato, forse perché non sono tra i cinefili che non credono allo spoiler. Io sì, e aspetterò i mesi che mancano all’uscita di Tenet senza nemmeno pensare di concedermi il trailer.
Vorrei trarre spunto dal legame ipotizzato tra il suo primo romanzo e la serie di von Trier. Mi interessa molto capire il ruolo della serialità nella scrittura letteraria, che sembra arrogarsi il medesimo ruolo del cinema durante il Novecento. Crede che la serie possa essere il nuovo “romanzo d’appendice”? Potrebbe nuocere al romanzo o giovare?
Su questo non ho un’idea precisa: la mia impressione è che la serie possa nuocere se viene imitata dal romanzo (come ha tentato di fare Giulio Milani con l’esperienza di una collana distopica di non-scrittori), e che abbia, piuttosto, sostituito il romanzo come passatempo di massa. Non leggiamo più i racconti sui quotidiani (a eccezione di qualche sporadica iniziativa, mi pare non di grandissimo riscontro), ma accendiamo il portatile e facciamo partire più o meno compulsivamente una serie (a questo proposito, ci tengo a dire che io non ho mai fruito le serie serialmente, niente binge-watching. Gli episodi me li centellino riservandoli a momenti e occasioni in cui guarderei un film o una trasmissione tivù, ove ce ne fossero). Alla fine le serie provano a soddisfare un bisogno di evasione che il romanzo, specie nelle sue migliori espressioni, in Italia, non ha mai incarnato. E, anzi, coi più bei romanzi italiani del vecchio e del nuovo secolo c’è molto da lambiccarsi il cervello e anche (talvolta) da annoiarsi, e comunque per larga parte vi si fanno riflessioni (pensando a libri che amo molto come la Cognizione di Gadda o, più di recente, ai romanzi di Pecoraro) e “non succede niente”, come direbbe il lettore alfa.
Il cinema ha anche influenzato il modo di raccontare del romanzo, con una progressiva rinuncia ai modelli introspettivi e di pensiero a favore di una modalità più vicina all’«inquadratura». È d’accordo? Crede che le serie, che ancor più insistono sulla narrazione serrata, possano trasformare l’idea del romanzo?
Il cinema ha influenzato la scrittura, certamente, con la tecnica del montaggio: ma questo a dire il vero in Italia mi è più evidente nella poesia che nel romanzo, se penso a Balestrini, in particolare, che ha combinato e ricombinato parole come immagini, da Tape Mark I al Tristano al Tristan oil, ovvero la poesia e il romanzo al calcolatore e il “film più lungo del mondo”(rielaborazione in digitale di 150 spezzoni di film proiettato al festival dOCUMENTA per un totale di oltre settemila ore). Dal punto di vista della tecnica la serialità non inventa nulla che non esistesse già, e anzi, imita il romanzo-feuilleton o gli sceneggiati televisivi. Quel che può fare il romanzo è proprio rifuggire dai supposti “gusti dei lettori” (“niente pesantezza di stile, una cosetta agile e svelta” come diceva Musil delle direttive imposte dai capo-redattori dei giornali), quando per “lettori” si voglia forzatamente (e pretestuosamente) intendere una massa indistinta, che non abbia esigenze, aspettative e desideri differenziati, come invece è. Lo specifico letterario della costruzione di un mondo passa inevitabilmente attraverso la scrittura. Scrivere un romanzo vuol dire scrivere, tautologicamente. E di scrittori in Italia oggi ce ne saranno…cinque, dieci? (inclusi i poeti, ovviamente).
Una domanda sulla scrittura che ritrae le immagini. Si è parlato di ipotiposi (Barthes), di ekphrasis (Eco), anche solo di descrizione (Genette): è possibile un approccio descrittivo in senso “creativo” (tradizionale) all’immagine in movimento (cinema, serie, tv), come accade con oggetto l’arte figurativa, scultorea, eccetera?
Anche qui mi vengono in mente solo poeti: sembrano gli unici a essersi accorti che l’arte non si fa più con le sculture, c’è stato il ready made già a inizio Novecento, oggi ci sono forme diversissime che vanno dall’arte relazionale ai meme. Persistere nei vecchi linguaggi e canoni è come voler mettere sullo stesso palco Romina e Albano e un trapper (ah è stato fatto?). Il romanzo sembra totalmente incapace di reinventarsi sulla base del deciso cambio di paradigma, di passo, di velocità e di immaginario introdotto dalla rete. Penso soprattutto all’area della poesia di ricerca, agli autori di “prosa in prosa”, che sono spesso traduttori, tra l’altro: sembrano essere i soli delle ultime (ormai penultime) generazioni a confrontarsi con un orizzonte ipermoderno (e dunque con le immagini schermate, oltre che in movimento) mentre nella romanzeria corrente il massimo del nuovo è trascrivere (noiosissime) telefonate (fossero pure chat nei riquadri: non basta a svecchiare un romanzo reazionario nell’impostazione e nei toni e lo fa anche Un posto al sole, la fiction per famiglie). Varrebbe la pena farsi un giro in rete, partecipare alla discussione letteraria dei social, selezionando, certo, accuratamente luoghi, siti e contatti: non bisogna più nemmeno fare lo sforzo di pedalare fino al confine come auspicato da Arbasino negli anni Sessanta. Chiasso è su Maps, a portata di clic.
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