
Mank – La scimmia e il suonatore
«La paternità forse è una finzione legale»
James Joyce, Ulisse (Stephen Dedalus)
Tornando a parafrasare Bene-Shakespeare, si è autori solo negli intenti, non negli esiti. Da qui partiva la nostra riflessione su The Other Side of the Wind, opera chiave di una contemporaneità rizomatica, segnata dal flusso indisciplinato di immagini senza padri, dall’open source, dalla pervasività istantanea, nella proliferazione di schermi e dispositivi. Nel film di Welles-Bogdanovich-Murawski, l’immagine del creatore assoluto, del demiurgo ostracizzato dalla logica dello studio system, nel cedere terreno all’ingovernabilità del caso, unico e inappellabile principio creatore, si sfaldava sontuosamente sancendo l’autonomia dell’opera dall’autore. Eppure, al moto centrifugo corrispondeva comunque un ritorno a quel centro decentrato, a quello specchio vuoto per eccesso di immagini che vi si riflettono che è la figura titanica di Orson Welles. Ecco allora che in Mank di David (e Jack) Fincher si delinea in un certo modo un percorso contrario.

A partire dall’ombra di Jack Fincher, defunto padre del regista, e di una sceneggiatura scritta dal primo negli anni Novanta, Mank è un film costellato dalla presenza-assenza di fantasmi paterni. Lo stesso padre padrone Welles resta per quasi tutto il film uno spettro avvoltolato nella sua iconografia: dapprima una voce, dunque, una sagoma dai contorni fumosi emersa dalle brume di un immaginario in celluloide (filtrato però dagli occhi del digitale). Ma è il terreno stesso su cui ha luogo lo scontro tra Herman Mankiewicz (Gary Oldman) e Welles a dissolversi sotto i piedi del donchisciottesco protagonista e a farsi fantasmatico. Il film di David Fincher, nell’immaginare la sceneggiatura di Quarto potere frutto del solo Mankiewicz, secondo le note e confutate teorie di Pauline Kael, finisce però paradossalmente, per la sua stessa natura arbitraria, per l’esibita infrazione storica e filologica, con il ricollocare lo sguardo su un contesto corale, sull’indecidibilità delle responsabilità collettive, problematizzando il concetto di creazione artistica. Un ribaltamento della massima di Truffaut, manifesto della politique des auteurs, che andrebbe riscritta così: «Non ci sono autori, ci sono solo opere».

Perché Mank non è soltanto, come è stato giustamente notato, un film sul potere della parola e sul complesso rapporto tra immagine (Welles) e scrittura (Mankiewicz), ma anche una parabola squisitamente wellesiana («Nel mio film solo il trenta per cento è reale, tutto il resto è inventato» conferma Fincher) su un uomo fagocitato da un’opera capace di superarlo. La storia della scimmia e del suonatore che William Hearst racconta a Mank, – e che riecheggia quella della rana e dello scorpione di Rapporto confidenziale –, non riguarda solo il rapporto manipolatorio tra il ricco imprenditore e lo scrittore, o quello tra quest’ultimo e Welles, ma si ripercuote sulle dinamiche che legano lo stesso Mankiewicz alla sua fatica cinematografica. Dopo avere affogato se stesso e la propria carriera tra i fiumi dell’alcol, Mank è pronto a portare a compimento quel processo di dissoluzione direttamente nella e attraverso la pagina, nella genesi di un’opera bigger than everything. Il titolo stesso, – non un nome completo ma il suo troncamento – rimanda già alla natura frammentaria del film e alla disgregazione del protagonista.

Mank non è un’opera compita, ma la tessera di un mosaico potenzialmente infinito. Un film-tassello sulle innumerevoli possibilità del racconto, un anti-biopic in cui i concetti di vero e falso lasciano spazio a quello di possibile. In un certo senso, uno spin-off sull’universo di Quarto potere e della sua genesi – e in generale sul processo di gestazione creativa. Quella frammentarietà dell’esperienza che il capolavoro di Welles esibiva al suo interno, grazie alla struttura narrativa, il film di Fincher la ritrova infatti nel confronto con la realtà storica. Anziché riproporre una narrazione dipanata attraverso i punti di vista di diverse soggettività, Mank si sviluppa al contrario attraverso i flashback di un unico personaggio, eppure altrettanto arbitrari, parziali, pilotati da una narrazione dagli esiti borgesiani.

La veemenza politica del film trova dunque qui il proprio terreno di gioco a riconferma di quanto l’operazione di Fincher sia tutt’altro che passatista – e l’effige di Netflix già basterebbe a intavolare molteplici riflessioni sulle strategie che sta adottando il catalogo della piattaforma negli ultimi anni. Mank compie dunque anche un ulteriore passo nella riflessione sul ruolo dei media e della manipolazione mediatica, centrale nell’ultimo Fincher (Gone Girl, The Social Network), manipolando in buona parte egli stesso una realtà storica riadattata con carica incendiaria alla contemporaneità delle fake news, in cui politica e spettacolo (o una sua deriva più che debordiana) si trovano ancora e più che mai inscindibili. Una contemporaneità di immagini tutt’altro che innocue su cui abbiamo sempre meno controllo. Ovvero, di altre immagini che rischiano drammaticamente di sopravvivere letteralmente ai propri smarriti autori, come nel caso, fittizio ma appunto possibile, dello sceneggiatore morto suicida dopo aver diffuso un filmato di propaganda repubblicana che è costato le elezioni del democratico Upton Sinclair.
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