
Perché guardare Castlevania
Ho iniziato a guardare Castlevania su Netflix spinto da una disimpegnata curiosità che a sua volta alimentava una curiosa smania di disimpegno. Quando l’ho cominciato, ormai tre anni fa, conoscevo il videogioco solo di fama – una fama di rimbalzo a dire il vero, merito dello Psycho Mantis di Metal Gear Solid che “leggeva la tua mente” – e forse questa quasi totale mancanza di conoscenza pregressa ha contribuito ad alimentare la mia curiosità. Solo quando però nei titoli di testa ho scorto il nome di Warren Ellis (prolifico scrittore di fumetti, Iron Man Extremis, Moon Knight e Karnak solo per citarne alcuni), la serie ha cominciato ad avere la mia attenzione. Più della serie in sé, mi interessava valutare l’approccio di un autore occidentale a un prodotto nipponico come un anime. In realtà Warren Ellis non è nuovo a queste sperimentazioni, lo sa bene ad esempio chi ha visto le produzioni Marvel Anime realizzate in collaborazione con MadHouse. Ma Castlevania portava con sé un’incognita ancora maggiore ovvero l’essere anche all’origine un prodotto orientale. Perché allora affidare la scrittura a Warren Ellis, anche considerando la sua innegabile ecletticità come autore? La risposta, se di risposta si può parlare, l’ho cercata all’interno delle tre sorprendenti stagioni della serie.

Prima di tutto, è vero che Castlevania è un anime basato su un videogioco giapponese ma è altresì vero che lo stesso gioco si basa sulla mitologia gotica squisitamente occidentale, appunto i vampiri e la figura di Dracula. In questo senso va apprezzato lo sforzo conoscitivo della produzione di costruire un contesto narrativo storicamente accurato, per quanto possibile almeno per una storia gotico-fantasy. Tema centrale delle tre le stagioni è la religione, intesa sia come vissuto mistico interiore, sia come espressione di un sentimento d’appartenenza collettivo ed atavico. Parole come “eresia”, “fanatismo”, “fede”, ma anche “filosofia”, “libero arbitrio” e “ragione” risuonano in tutti gli episodi, quasi a ricordarci che la lotta tra umani e vampiri è tanto uno scontro per la sopravvivenza quanto un conflitto ideologico non raramente anche all’interno delle stesse fazioni. Ma mentre le prime due stagioni, quasi come a voler citare il videogioco stesso, calcano molto la mano sul lato action della storia (in particolare la seconda ci regala dei combattimenti veramente esaltanti), la terza stagione sta ricevendo pesanti critiche di immobilismo narrativo: critiche (quasi) del tutto immotivate.

È vero, la terza stagione di Castlevania è sicuramente una battuta d’arresto rispetto alle prime due. Con la morte di Dracula alla fine della seconda è come se gli autori ammettessero in parte di non sapere più dove andare a parare. Ma si tratta di una finta ammissione, in realtà è proprio nella terza stagione che Castlevania rivela per intero quello che vuole essere: non un anime tradizionale, né un classico prodotto seriale Netflix – e di certo molto più di una trasposizione animata di un videogame – bensì un ibrido (come del resto uno dei protagonisti, Alucard) che pesca a piene mani dalla contemporaneità per creare un inedito spazio di discussione e incontro. Non a caso la vera vincitrice di tutte e tre le stagioni è la scrittura. Lo si comincia a intuire fin dai primi episodi della prima stagione: molti personaggi sono divisi tra ciò che vorrebbero fare e ciò che sono destinati a essere, un tema classico di ogni grande narrazione dalla tragedia greca in poi, ma nella terza stagione questo conflitto raggiunge livelli inaspettati per chiunque, tanto per i protagonisti, quanto per gli spettatori. Il solo sesto episodio della terza stagione vale la visione dell’intera stagione quando non dell’intera serie.
Un altro merito di Castlevania è la sua straordinaria capacità elusiva, dovuta alla sapiente miscelazione di diverse grammatiche narrative. Chi cerca una serie gotica e horror rimarrà stupito dalla sua componente drammatica; chi è attratto dai disegni e dallo stile nipponico troverà inaspettatamente ben costruita l’ambientazione e i contesti est-europei; chi, fan del videogioco, ha atteso la serie per ritrovare i suoi beniamini rimarrà sorpreso dalle nuove aggiunte rispetto al materiale di provenienza.

La verità è che Castlevania ha qualcosa da dire a chiunque, sia all’appassionato di anime, sia a chi, come chi scrive, indaga il rapporto tra i videogiochi e gli altri media. Castlevania è ancora adesso una delle serie TV basate su un videogioco con le recensioni migliori e senza dubbio nell’ultimo decennio il rapporto tra videogame, cinema e serialità si è intensificato. Possiamo trovare altri mille motivi per i quali vedere Castlevania (non ultimo, cosa vedere in questi giorni di quarantena e coprifuoco) ma la verità è che l’unico motivo per il quale ho iniziato a vedere Castlevania era proprio capire in che modo Netflix mettesse in comunicazione narrativa e seriale videogioco. Il risultato mi ha sorpreso al punto da andare ad approfondire il videogioco e divertirmi nel capire cosa e quanto Warren Ellis avesse infuso in quei pixel bidimensionali. Sempre con mia sorpresa ho scoperto che anche il videogioco stesso vantava una profondità tematica e narrativa non indifferente per l’epoca. Ellis altro non ha fatto quindi che far germogliare quei semi già presenti nel materiale di partenza in una serie ricca, scorrevole e godibilissima anche per i profani.

Cosa ha da dire Castlevania quindi al mondo dell’entertainment? Probabilmente meno di quanto si pensi in termini di comunicabilità tra videogiochi e media tradizionali. Non sarà certo Castlevania ad accorciare la distanza tra i due mondi (già di per sé molto più corta rispetto a quindici anni fa) neanche con il già annunciato Bootleg Multiverse di Adi Shanknar, che mira a creare un universo narrativo condiviso tra le saghe Assassin’s Creed e Devil May Cry. Certo è però che Castlevania dimostra indiscutibilmente che una buona storia può celarsi ovunque, anche e soprattutto nella teste di molti gamer appassionati.
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