
Festen – 25 anni fa usciva il capolavoro di Thomas Vinterberg
Sono passati 25 anni dall’uscita di Festen di Thomas Vinterberg. Primo film Dogma 95 e primo esperimento di quel nuovo cinema danese che inseguiva la realtà attraverso il lo-fi e ricercava il valore testimoniale dell’immagine, l’aderenza al reale.
Festen vince il premio della giuria al 51° Festival di Cannes e diventa subito un oggetto scomodo. Lo spettatore sobbalza di fronte a quella regia traballante – letteralmente, per l’utilizzo della camera a mano come da decalogo Dogma95 – e l’istituzione della famiglia borghese viene messa a nudo in un terribile gioco al massacro sulla verità.
Il patriarca Helge Klingenfeldt, magnate dell’acciaio, festeggia i 60 anni nella sua lussuosa villa. L’atmosfera è subito tesissima: il figlio minore, con problemi di alcol, arriva senza essere invitato e Christian, il primogenito, nel discorso-omaggio al padre, rivela un terribile segreto. La deflagrazione familiare esce allo scoperto con la più indicibile tragedia. Pedofilia e incesto. Proprio Christian e la sorella, suicidatasi un anno prima, hanno subito ripetuti abusi dal padre, con la connivenza di una madre troppo borghese per ammettere quella vergogna.

Vinterberg realizza un dramma centripeto dove i corpi dei protagonisti vanno a convergere verso una nuova rinascita: uccidere il mostro e ritrovare l’unità perduta. L’intero film procede a ritmo vorticoso con movimenti di camera nervosi e barcollanti. Una Caduta degli dèi in ottica garage/lo-fi. Vinterberg asseconda con la regia la decostruzione di un’istituzione e lo fa essendo lì in quel momento, posizionandosi talvolta come un occhio che sta spiando la tragedia nel suo farsi. L’occhio digitale diventa sostituto dell’occhio umano, un nuovo modo di guardare, un obiettivo antropomorfizzato nel suo continuo cercare il fuoco e con movimenti sgraziati. Un modo di filmare simile, in prima battuta, al collega e co-firmatario del manifesto Lars von Trier in film come Idioti (1998) fino all’eccesso di Dancer in the Dark (2000), pur collocandosi già fuori dal Dogma 95.

Lo spettatore in Festen si ritrova testimone diretto di ciò che avviene sullo schermo. Dopo la terribile confessione le dinamiche familiari si intensificano: momenti di ironia, tradimenti, liti, l’ombra del razzismo interiorizzato. Il vaso di Pandora ha traboccato e la tempesta si fa più impetuosa; Christian non viene creduto e considerato perciò pazzo ma la lettera lasciata da Linda confermerà le accuse verso l’orco e pater familias.
Il regista danese “ruba” a Bergman – la scena del ballo è un chiaro omaggio a Fanny e Alexander – e guarda a Visconti creando una tensione continua con momenti di pura vertigine. Lo stesso film viene citato, in un gioco di rimandi tra “colleghi”, nella scena del pranzo in Melancholia di LvT. E infine, dopo la tempesta, arriva la risoluzione, simboleggiata nella colazione conciliatoria che esclude Helge e che apre a un nuovo giorno.

Un film che a distanza di 25 anni ancora ci porta a riflettere sulla relazione tra realtà e sguardo, tra rappresentazione e il suo rapporto con la realtà, tra profilmico e filmico. Tra farsa e tragedia emerge il rapporto tra cinema e spettatore, tra atto di guardare e testimonianza delle immagini. Per chi lo ama un capolavoro spietato sulla potenzialità dell’occhio digitale nei confronti della realtà, a volte della verità.
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