
Let’s Rock – Le esibizioni musicali nelle opere di David Lynch
Non è un caso che le opere di David Lynch sembrino appartenere tutte allo stesso universo. C’è una serie di fili rossi più o meno evidenti che aiuta a costruire un senso di continuità estetica e tematica, si tratti di dialoghi o parole, intere situazioni o singole inquadrature. Abbiamo già parlato dell’utilizzo di oggetti e immagini ricorrenti in Twin Peaks, ma c’è un ulteriore elemento che si fa vivo con forza nel mondo della serie e al contempo lo travalica: le esibizioni musicali dal vivo. Nelle opere del regista di Missoula il momento della canzone, inserito in maniera diegetica nella narrazione, ha quasi sempre un ruolo privilegiato all’interno dell’opera, e al contempo gode dell’indipendenza di un piccolo pezzo d’arte a sé stante. Che si tratti dell’intimo di un interno, del palco di un nightclub o di un non precisato luogo metafisico, la musica da commento agli eventi si fa evento essa stessa, come si può evincere dalla rassegna cronologica che segue.
«Where we’re from, the birds sing a pretty song and there’s always music in the air.»
[ATTENZIONE: L’articolo contiene spoiler]
Eraserhead (1977)
«In Heaven, everything is fine / You’ve got your good things, and you’ve got mine»
Eraserhead è un incubo, e dell’incubo ha tutti gli elementi che potremmo aspettarci: anfratti oscuri, creature mostruose, dialoghi alienanti e minacciosi rumori di fondo che sembrano risucchiare lo spettatore in un abisso senza fine. È un incubo, quindi, capace di partorire altri incubi, quelli del protagonista Henry (Jack Nance), tra i quali l’esibizione di Laurel Near su un palco che si materializza misteriosamente all’interno di un termosifone. La donna si presenta sulla scena accompagnata da un’allegra musica da sala da ballo, bruscamente interrotta per lasciare spazio all’organo che accompagnerà il suo canto, In Heaven. Il quadro che si compone vive di contrasti: una voce soave e struggente, che canta parole rassicuranti, sopra una melodia da marcia funebre; lo sguardo tenero e il sorriso dolce accompagnati da una deformazione mostruosa delle guance. Eppure, questa visione si rivela essere l’unica cosa a cui Henry vorrebbe aggrapparsi, un canto che, per quanto presagio di morte, riesce a farsi spazio nella cacofonia infernale in cui si trova immerso.
Velluto Blu (Blue Velvet, 1986)
«A candy-colored clown they call the sandman / Tiptoes to my room every night / Just to sprinkle stardust and to whisper / “Go to sleep. Everything is all right.”»
L’orecchio tagliato con cui si apre la pellicola è la rappresentazione plastica dell’importanza attribuita da Lynch all’organo dell’udito, ritenuto un canale di accesso alla mente tanto importante quanto quello della vista. Dunque, non può sorprendere che in Velluto Blu siano presenti più inserti musicali, e faremmo un torto nel non citare la magnetica versione di Blue Velvet di Isabella Rossellini. Ma l’esibizione che rimarrà impressa nella memoria collettiva viene da una scena successiva, e anche in questo caso il suo impatto emotivo deve molto ai contrasti che vi sono implicati. Come il protagonista Jeffrey (Kyle MacLachlan), anche noi spettatori siamo obbligati ad assistere attoniti alla performance grottesca di Ben, interpretato da Dean Stockwell. Una cassetta registrata, un click ed ecco il primo accordo di In Dreams di Roy Orbison: ciò che vediamo è uno spudorato quanto perfetto playback di Ben, vestito e truccato di tutto punto, che impugna in maniera teatrale un microfono vintage con tanto di lucina incorporata. L’antagonista principale del film, Frank (Dennis Hopper), è al contempo commosso e profondamente disturbato dalla delicatezza della melodia; un ossimoro, considerando la scurrilità esasperata del personaggio, violento e aggressivo oltre ogni limite. Se il testo è un romantico invito a lasciarsi trasportare dal sogno dell’amata per poi struggersi al risveglio, nel film la relazione uomo-donna è sessualizzata e distorta in maniera quasi bestiale. In definitiva, il risveglio amaro dal sogno cantato da Orbison rispecchia la brusca interruzione della canzone stessa da parte di Frank e, ad un livello meta-strutturale, sembra riecheggiare quello del cittadino medio di fronte alla messa a nudo delle nefandezze della provincia americana.
Cuore Selvaggio (Wild at Heart, 1990)
«Treat me like a fool / Treat me mean and cruel / But love me»
La satira caustica nei confronti della mitologia americana prosegue nel film successivo, che vede al suo centro la fuga d’amore dei due protagonisti Sailor (Nicolas Cage) e Lula (Laura Dern). Nella scena presa in esame, il contrasto di elementi opposti produce questa volta un effetto più umoristico che straniante. L’improbabile ambientazione è un locale di musica metal, il pretesto per l’esibizione è una dichiarazione d’amore di Sailor nei confronti di Lula, un attimo dopo aver difeso il suo onore contro un ragazzino che la importunava. La canzone in questione è Love me, successo di Elvis Presley e dunque del volto pulito del rock americano; il risultato è melodrammatico, smielato, ai limiti del patetico. Sailor è il simulacro delle istanze di ribellione dell’epoca, ormai disinnescate (o forse già nate morte): tenta, nell’arco di tutto il film, di imitare l’attitudine e lo stile di Elvis, arrivando a sfociare, in realtà, nella pura parodia. Il suo machismo esasperato, il suo desiderio continuo di autoaffermazione e la sua sessualità prorompente non sembrano in grado di colmare l’inquietudine esistenziale che, prima celata, inesorabilmente si fa largo nella pellicola.
Mulholland Drive (2001)
«Luego de tu adios / Senti todo mi dolor / Sola y llorando / Llorando»
La sequenza del Club Silencio è uno dei punti più alti della filmografia di Lynch. Non solo per i picchi emotivi che riesce a toccare, ma in special modo per la capacità di enucleare in poche scene il senso dell’esibizione musicale dal vivo, mostrandone il rovescio della medaglia. «Non c’è orchestra», eppure, ci spiega il presentatore, sentiamo un’orchestra (e il pensiero va a Laura Palmer e al suo «I’m dead, yet I live», altro ossimoro lynchiano). La stranezza ontologica della musica registrata sembra rispecchiare quella dell’immagine filmata: la realtà viene impressa su un supporto, per poi rompere il silenzio e colpirci come se fossimo in presenza della stessa. Dunque, entrando nel regno del “come se”, apriamo le porte all’illusione: la quale, si badi bene, può essere tanto magnifica da confondersi con la realtà, ingannandoci. È dunque una sorta di inganno quello che ci viene mostrato con l’esibizione di Rebekah Del Rio: è lei ad arrivare sul palco con una (finta) lacrima sul viso, e a cantare con immenso trasporto Llorando. Salvo, poi, lasciarsi cadere a peso morto, senza preavviso: la canzone prosegue, e noi scopriamo che si tratta di un playback, di una registrazione, di un’illusione. Dunque, cosa si prova a scoprire di essere stati mossi alle lacrime da nient’altro che un simulacro, sia esso un’opera d’arte o un amore ormai perduto? Ma, soprattutto, quello che ci viene presentato come illusorio è così tanto diverso dall’inganno messo in atto dal regista stesso?
Twin Peaks (1990 – 2017)
«Love / Don’t go away / Come back this way / Come back and stay / Forever and ever»
Già nelle prime due stagioni di Twin Peaks il momento musicale si configura come rivelatore, e due scene nello specifico sono lì a dimostrarlo. La prima, si parla dell’episodio 2 della seconda stagione, nella quale James (James Marshall) registra la canzone Just You insieme a Maddie (Sheryl Lee) e Donna (Lara Flynn Boyle): il testo, parlando di un amore totalizzante e assoluto, di fatto esclude una delle parti in gioco («Just you / And I / Together / Forever / In love»), andando ad alimentare un pericoloso gioco di sguardi tra i tre personaggi, staticamente immersi in un’atmosfera sognante. Nell’episodio 7, invece, l’esibizione di Julee Cruise al Bang Bang Bar (conosciuto principalmente come Roadhouse) – si tratta della canzone The World Spins – sembra fermare il tempo e alzare il sipario su un’altra dimensione, di fatto andando a caratterizzare il luogo come sospeso tra due mondi, catalizzatore delle visioni risolutive del protagonista.
Ma è solo nella terza stagione che il Roadhouse Bar si configura come vero e proprio luogo liminale, frontiera aperta non solo tra i mondi interni all’universo finzionale di Twin Peaks, ma anche tra diversi mondi della filmografia lynchiana e tra il nostro mondo e quello dell’opera stessa. Dunque, è da evidenziare l’inclusione di artisti che già esistono nel mondo di Twin Peaks (i due menzionati poco sopra), artisti esistenti nel nostro mondo e presentati come tali (Nine Inch Nails, Chromatics), artisti esistenti ma presentati sotto altro nome (per Eddie Vedder è usato il nome di battesimo Edward Louis Severson III), artisti che abbiamo visto esibirsi in altri film di Lynch (Rebekah Del Rio) e vere e proprie meta-sequenze, come quella del personaggio di Audrey (Sherilyn Fenn) che riprende la “sua” danza, in realtà un pezzo di colonna sonora della prima stagione. Solitamente posti alla fine delle puntate, i momenti musicali del Roadhouse fungono anche da dispositivo estetico e narrativo, che rafforza il senso della scansione episodica dell’opera e delle vicende che vediamo sullo schermo.
Il momento musicale nell’opera di Lynch fa parte di un discorso complessivo che, nel corso degli anni, è arrivato a trascendere sia la singola opera che il medium artistico in sé stesso. Non si è mai trattato di semplici parentesi diegetiche, ma di veri e propri punti di svolta delle vicende narrate, di rinforzi del sottotesto politico e di dispositivi metacinematografici. Di più, le esibizioni di cui abbiamo parlato sono la materializzazione di una precisa idea su come veicolare dei messaggi tramite il mezzo cinematografico: un linguaggio che si presta a intonazioni e volumi diversi, dal sussurrato al cantato, in grado di restituire un altrettanto ampio spettro di emozioni.
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