
BoJack Horseman 6 – Anno nuovo vita nuova?
Quale sia il “centro” di BoJack Horseman, in realtà, è difficile comprenderlo. Se le strategie compositive, in una sorta di estensione della personalità del protagonista, sono di distrazione, digressive, complesse, ossimoriche. Il motivo di questa eterogeneità narrativa sta probabilmente nel bilanciamento di una trama tutto sommato lineare, che vede la star holliwodiana far i conti col suo malessere. Nel cartaceo del 2017 (disponibile qui) scrivevo più precisamente:
Si è parlato di abilità nel trovare risorse narrative soprattutto perché la serie, in esordio, sembra progettare la sua immediata fine. Non che manchi l’originalità, ma quel leitmotiv di malinconia e riflessione profonda sulla vita irrigidisce tutti i tentativi di sviluppo. È così che dalla terza stagione la serie comincia a variare il ritmo e a sfruttare un topos proprio delle sit-com americane: le puntate posseggono un colore preciso, perché si tratta fondamentalmente di retorica.
E la fine sembrava essere programmata. Nella quinta stagione BoJack si circonda di deserto (relazionale). Al contempo, però, la sua carriera vede una risalita: Philbert è una serie di successo annunciato – sarà, invece – la condanna. Ecco dunque l’evento apocalittico, la stagione in cui forse persino l’eccesso (e l’irrealtà) delle situazioni a tratti infastidiscono. Nel più recente articolo sulla serie, nonostante ritenessi fosse un prodotto eccellente, trovavo che la quinta stagione fosse la meno riuscita: per il «mancato bilanciamento fra la storia principale e le subalterne»; per la diminuzione della varietà narrativa, che nella terza e nella quarta stagione rappresentavano il punto di forza principale; per la fin troppo telefonata sovrapposizione Philbert-BoJack, che pure è gestita con grande sapienza.
Si diceva di evento “apocalittico”. Ebbene, questa prima parte di BoJack Horseman 6 (la seconda sarà disponibile a gennaio dell’anno nuovo su Netflix) sembrerebbe la messinscena della post-apocalisse emotiva. Almeno, dovrebbe esserlo, ma è razionalissimo il tentativo di Raphael Bob-Waksberg di sciogliere immediatamente la tensione, di annunciare (pedagogicamente) che nonostante la tragedia, quello che rimane non è distruzione ma possibilità di rinnovamento. BoJack in clinica in qualche modo prende la giusta strada, nonostante gli intensi flashback o meglio le madeleine proustiane, ricordanze, tutto ciò che l’avrebbe portato alla dipendenza da alcool ritorna (anche se a tratti sembra un’auto-narrazione, pure di comodo, per sollevarsi dalle responsabilità). Nella sua permanenza in clinica, BoJack lascia ad altri personaggi (direi forse eccessivamente “scimmiottati” nella precedente stagione) lo spazio di raccontarsi. [Spoiler] Conosciamo il padre di Todd, Diane si avventura in una lotta contro il sistema e contro sé stessa, Princess Carolyne cresce la propria bambina, nonché risolve una crisi sindacale.
L’anima, però, mi sembra non sia del tutto “rilassata” o “positiva”. Al centro della serie (ed è il motivo che la rende profondamente politica, cioè satirica) è la contraddizione della società americana, regolata da un capitalismo immanente, spinta da logiche esclusivamente imprenditoriali, eppure fondata sulla libertà individuale, libertà di agire con stravaganza, di sperimentare forme di protesta contro la stessa società ma tutto con evidenza regressiva, poiché l’individualità di questa libertà porta, necessariamente, a una responsabilizzazione individuale. Ed è a quel punto che “l’aggiustamento” avviene colpevolizzando l’individuo, mettendo in gioco una teoria psicologica che corregga il sistema dagli elementi più piccoli.
La parabola di BoJack è una parabola, probabilmente, senza speranza, nonostante i tentativi di cui sopra. Insomma, è contraddizione persino autoriale. [Spoiler] Tutto sembra aggiustarsi, BoJack persino accontenta Mr Penautbutter inscenando un episodio crossover (è che intensità di scena!); trova lavoro come professore. Ma la violenta ironia messa in gioco nella campagna di sensibilizzazione sulla depressione (che coinvolge, in definitiva, con messaggio positivo, Diane) e nella vicenda della Whitewhale, multinazionale in grado di acquistare qualsiasi cosa e per legge dispensata da accuse in caso di omicidio – la violenta ironia è indice proprio dell’apocalisse che si vorrebbe evitare, cioè di come può esserci redenzione individuale, forse, ma qualsiasi sforzo venga fatto, in realtà, è inutile perché è la società che non può redimersi (con la rimessa in circolo, in definitiva, dei peccati del singolo, una sorta di tutela della società per sé stessa). Così, con un cliffhanger degno di DragonBall Z, vediamo BoJack apparentemente sulla retta via, ma con all’ombra le bugie sulla morte di Sara Lynn; con un germe sospeso a infettare il suo rapporto più caro.
Assieme alla grande intensità emotiva e alla critica sociale, l’altro elemento di interesse riguarda, ancora, lo sperimentalismo stilistico (e proprio anche di Tuca & Bertie, purtroppo sospesa). Le puntate più interessanti a proposito sono la seconda e la quarta, con realizzazione, da un lato, dell’ansia lavorativa e familiare di Princess Carolyne, e proiezione dei fantasmi della routine; dall’altro della crisi relazionale tra Mr Penautbutter e Pickle, con eccellente interferenza toddiana (ormai all’ordine del giorno) e social, per cui la componente partecipativa del tutto sembra metter lo spettatore di fronte a una performance teatrale moderna.
Aspettando la seconda parte conclusiva, si speculererà continuamente su quale possa essere la fine di BoJack – e io credo che, sulla base di un parallelo più volte suggerito, tutti i personaggi della serie troveranno una sistemazione, eccetto BoJack, alla maniera del finale di Mad Man, [SPOILER] quando Don Draper dovrebbe ritirarsi, riposare, uscire dal cerchio infernale dell’advertising ma alla fine realizza, ineccepibilmente, la nuova pubblicità della Coca Cola.
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