
The Clone Wars – La stagione finale: come invecchiare
Invecchiare significa profondamente capire. Come quando riprendi un libro o un film e comprendi non solo quel passaggio che ti era sfuggito anni prima, ma anche perché a suo tempo non l’avevi capito. Invecchiare bene è epifanico. Dave Filoni aveva 34 anni quando uscì al cinema il suo Star Wars – The Clone Wars, probabilmente l’unico film cinematografico della saga lucasiana che mi sento di definire un totale fallimento (perché sì, salvo anche La Minaccia Fantasma va bene?). Ho sempre pensato quindi che ci volesse molto coraggio per un qualunque spettatore deluso dal film a iniziare una serie animata che potenzialmente riproponesse le stesse situazioni di un film mediocre per chissà quante stagioni. Ma come abbiamo appena detto, invecchiare è profondamente capire e Filoni, ora quarantaseienne e con sette stagioni (e mezzo) sulle spalle solo di The Clone Wars, di cose ne ha capite e non poteva invecchiare meglio.

Lo diciamo subito: la final season di The Clone Wars è il miglior prodotto di Star Wars dell’era Disney finora, meglio di tutta la trilogia sequel, meglio sicuramente di The Mandalorian e per certi aspetti anche meglio di Rogue One. Ebbene sì, l’abbiamo detto. Facciamo tutti i paragoni del caso, anche i più sacrileghi e proibiti e scopriremo che The Clone Wars non teme confronti con nessuno, neanche con i mostri sacri. E nel suo complesso l’intera serie è seconda forse solo al franchise di The Old Republic, in termini di Universo Espanso almeno. Ma andiamo con ordine. Come molte delle cose migliori della vita, anche questa stagione finale è tripartita e ognuna delle tre parti merita di essere analizzata nello specifico.

Episodi 1-4: The Clone Wars
I primi quattro episodi si possono riassumere perfettamente nel titolo del quarto, Unfinished Bussiness tradotto in italiano con Questioni in sospeso ma che in questo contesto preferiamo tradurre con “lavoro da finire”. È il caso della Bad Batch, un gruppo di cloni “irregolari” protagonisti di un omonimo arco narrativo della “stagione perduta” di The Clone Wars. Qui il lavoro lasciato in sospeso è veramente (ri)finito. Tutti i componenti della squadra sono tratteggiati con una tale dovizia di particolari (a cominciare dal doppiaggio, eccellente in inglese quanto in italiano) che sembra quasi di poter scorgere, quando non di conoscere, la storia passata e inesplorata di ogni membro del gruppo. Ma soprattutto il primo ciclo di episodi è un tributo a tutto ciò che ha reso grande la serie in questi dodici anni: le storie di guerra. C’è un enorme tributo a tutto il grande cinema bellico americano, dai dettagli delle armi, al montaggio serrato degli assalti, fino alla trattazione delle grandi tematiche di guerra che ha contraddistinto il cinema americano dal dopo Vietnam. Ma ci sono anche Anakin e Obi-Wan, c’è il ritorno di un grande villain delle passate stagioni, ma soprattutto c’è Rex in lotta continua col suo passato e le responsabilità da leader. Insomma, per chi era in stand-by dal 2014, i primi quattro episodi rappresentano un felice risveglio da un torpore durato ben 6 anni. Altro che risveglio della Forza.

Episodi 5-8: una parentesi
Alla fine della quinta stagione abbiamo salutato, si pensava definitivamente, la vera protagonista di The Clone Wars, Ahsoka Tano, personaggio quasi inspiegabile, per non dire inutile, alla sua prima apparizione nel film del 2008, diventata poi il fulcro della serie e ormai uno dei personaggi cardine dell’intera saga di Star Wars. Nonostante l’ottima sesta stagione, probabilmente la più antologica in questo senso, si è sentita molto la sua mancanza in questi anni, al punto che persino la serie Rebels ha dovuto puntare su di lei per alzare l’asticella della qualità. Ed è forse proprio negli episodi centrali, paradossalmente, che quest’ultima stagione conosce un evidente rallentamento, come se la togruta faticasse un po’ a reggere da sé l’intero impianto degli episodi. Difficile inoltre capire quale sia il fuoco della narrazione, se la “riscoperta” della protagonista come Jedi o il legame di sorellanza tra le protagoniste. Sia chiaro però che non parliamo di prodotti malriusciti ma sicuramente si avverte un cambio di ritmo. È innegabile che la parabola di Ahsoka e delle sorelle Martez non goda dello stesso spessore narrativo degli episodi precedenti e in più occasioni si ha come l’impressione di avere a che fare con qualcosa di superfluo. Ci teniamo a ribadire, comunque, che questa parentesi discorsiva non inficia sulla qualità del prodotto finale. Anzi si apprezzano le non poche trovate di scrittura brillanti, specialmente nell’ottavo episodio durante l’inseguimento su Coruscant.

Episodi 9-12: nero su bianco
Che succede? Dov’è il nostro solito incipit? E perché quel logo? O mio dio era da almeno 37 anni che non si usava proprio QUEL logo. E perché la scritta rossa? La musica è diversa, aspetta, non è vero, la musica non c’è proprio. Anzi no, c’è quasi solo la musica. Ho capito, inizia il rush finale, va bene, ci sta. Ecco Obi-Wan, Anakin, di nuovo Rex. C’è un messaggio per Anakin ma deve vederlo di persona. Gli sguardi s’incontrano dopo tanto tempo, maestro e apprendista. Ma chi è il maestro e chi l’apprendista? La voce di lei così ferma da sembrare insicura, lui sicuro di non sapere, perché non sa cosa dire. Silenzio. E qui lo spettatore invecchia. Parole, missione, Coruscant, Cancelliere Supremo, Mandalore, magari hanno pure messo un riferimento a The Mandalorian ma chissene. Fine parole, arrivo su Mandalore. Corridoi sotterranei, buio. Regia quasi horror. Chiunque abbia stabilito il visto censura di The Clone Wars – adatto a un pubblico superiore ai sei anni di età – dovrebbe essere radiato a vita da qualunque cosa. Maul. In una definizione: elegantemente brutale. La voce è quella ormai storica di Sam Witwer e va benissimo così, un lama che si insinua dolcemente nella schiena. Maul però non parla con la voce ma con il corpo e il corpo non può che essere quello di Ray Park, un ballerino della morte crudelmente preciso e aggraziato. Non serve vedere i dietro le quinte, lo si riconosce al primo fendente. Poi di nuovo parole, ma questa volta sono una presa di judo. Non la forza quanto il fatto che ribaltino tutto ciò in cui credevi che ti fa male:
“Un grande servizio alla Repubblica hai reso”
“Ho fatto il mio dovere da cittadina”
“Non come Jedi”
C’è delusione nelle parole del “maestro”, deluso da sé stesso e costretto ad ammettere che una piccola ed eterna padawan gli abbia impartito una lezione: il bene non ha rappresentanti, il bene è azione. E qui lo spettatore invecchia, ma invecchia bene, cioè cresce. Nave, astronave, velocità luce, amicizia. Poi succede. Lo sai cosa succede, ormai ci siamo, è quella roba lì. Ma allora cos’è questo senso di spaesamento e terrore? È solo il talento del narratore, che consiste nel sorprenderti non tanto con del materiale nuovo, ma nel farti vedere quanto non avevi capito a suo tempo del vecchio. Invecchiare è capire. Ahsoka è invecchiata. Non tutta d’un botto, ma ha realizzato di tutto il tempo trascorso in un dolorosissimo attimo, rugato dalle lacrime di Rex. Silenzio. Le parole non servono, solo la musica.
Mentre la trama volge a conclusione, invecchio ancora una volta. Mi tornano in mente i giorni del liceo in cui studiavo il teatro greco. Penso al coro che all’epoca immaginavo come un insieme di chierichetti che faceva la morale al protagonista. Sì, va bene, Aristotele diceva che il coro era parte integrante dello spettacolo, ma all’epoca non avevo tempo per dargli retta. Ed era giusto così, era giusto che lo capissi guardando The Clone Wars. Ora non si chiama coro ma colonna sonora, ma la funzione non cambia: la musica non esalta l’azione, la musica è l’azione. Non c’è tempo, nel senso che non c’è scansione temporale. Il tutto porta agli ultimi due fotogrammi finali. Invecchiare fa male, perché capire fa male. Ahsoka ha capito e noi con lei. La verità è schietta, nero su bianco. Come Vader sulla neve.
Sipario.
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