
Moravia: 4 domande agli scrittori italiani sulla televisione – Piccolo Schermo Gigantesco | SpinOff
«piccolo schermo gigantesco» (Ottieri) è una rassegna di interviste, pubblicata su «Birdmen Magazine», a scrittori italiani contemporanei, a proposito della “mescolanza” di media, dell’influenza delle arti cinematografiche sulla narrativa, sulla poesia e sull’immaginario, della corrispondenza biunivoca dei mezzi. L’obiettivo è critico. Perciò, a ciclo concluso, verrà elaborato uno scritto saggistico. Per la sezione “Spin Off”, un approfondimento sulla serie di interviste che Alberto Moravia ha condotto (sulla Televisione) per «Nuovi Argomenti», n. 27, 1988.
Illustrazione di Valentina Marcuzzo
Hanno partecipato: D. Bellezza, G. Bufalino, G. Caproni, G. Celati, V. Cerami, F. Colombo, G. Conte, A. Debenedetti, A. Elkann, F. Fortini, M. Lodoli, R. Loy, M. Luzi, C. Magris, L. Malerba, D. Maraini, G. Montefoschi, N. Orengo, V. Pardini, W. Pedullà, G. Pontiggia, E. Rasy, G. Rugarli, F. Sanvitale, L. Sciascia, M. Soldati, V. Zeichen, L. Vaccari.
Era il 1988 quando Alberto Moravia, sul numero 27 della storica rivista di sua fondazione Nuovi Argomenti, offriva un prezioso contributo all’interminabile indagine sulle funzioni del medium televisivo pubblicando un’intervista rivolta a una serie di autori italiani a proposito delle insidie del mezzo.
L’articolo a cui ci riferiamo qui è Quattro domande agli scrittori italiani sulla televisione che muove la sua indagine sulla qualità dei programmi e sulle problematiche del mezzo televisivo in sé. Non possiamo però prescindere dal fatto che le analisi proposte dagli autori che parteciparono al sondaggio si basino sul contesto televisivo degli anni ’80 (o quantomeno fino agli anni ’80), un contesto mediale che certamente si rivolgeva a un pubblico considerato di consumatori, nel mezzo dell’ormai affermata cultura di massa, all’epoca ancora da analizzare, studiare e indagare. Ad oggi gli studiosi di Media Studies hanno individuato nuovi paradigmi di sviluppo del piccolo schermo, che è evoluto sempre più ramificando, targettizzando, moltiplicando a dismisura in una concezione non solo più identificativa ma anche interattiva l’offerta mediale, alla luce di una storicità di cui l’inchiesta Moraviana rappresenta e riflette solo una fetta temporale.
Per questo forse risulta affascinante la molteplicità delle visioni e delle ipotesi esposte nelle argomentazioni degli scrittori italiani attivi in quegli anni, che risposero con tanto entusiasmo e con enorme desiderio d’indagine e interpretazione alle quattro domande poste da Alberto Moravia riportate qui di seguito.

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A suo tempo ha avuto molta fortuna la formula di Mac Luhan: “Il mezzo è il messaggio”, a proposito dei mass-media. Secondo questa formula, il messaggio della televisione non varierebbe ad ogni trasmissione ma sarebbe sempre lo stesso essendo contenuto non già nelle immagini che scorrono sullo schermo ma nel fatto stesso che queste immagini vengono fornite dall’apparecchio televisivo. Adesso, di fronte allo straripamento della televisione nella vita italiana e in genere nel mondo intero, non pensate che bisognerebbe rivedere la formula di Mac Luhan? Non pensate piuttosto che il messaggio sta nella qualità delle trasmissioni e non nell’apparecchio televisivo?
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La Televisione è visiva o audiovisiva? Non pensate che le immagini povere e sommarie sono accompagnate da un flusso di parole altrettanto e più povere e sommarie, cioè di chiacchiere, di luoghi comuni e simili? Non vi pare che le immagini della televisione esercitano un’influenza in fondo meno deleteria delle parole dei vari speaker, animatori e altri personaggi simili? Una influenza che da una parte rafforza il conformismo delle masse e dall’altra tende a sostituire la lingua italiana e i dialetti con una specie di pidgin-italian, ossia con una lingua fatta di cento parole?
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Si dice che la televisione trasforma la vita in spettacolo. Spettacolo il Papa, spettacolo la partita di calcio, spettacolo il criminale di turno. In altri termini tutto sarebbe ridotto a livello di tutto e non ci sarebbero più i cosiddetti valori. Non credete che questa affermazione pecca di facilità? Non vi pare che un film d’autore non fa spettacolo ma costituisce un’esperienza dalla quale emergono valori estetici? Non vi pare che spettacolo nel senso livellatore c’è soprattutto quando non c’è espressione ma soltanto informazione, la quale a sua volta fa spettacolo cioè non si rivolge a nessuno in particolare ed è per così dire fine a se stessa?
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La televisione diffonde la cultura di massa, almeno così si dice. Se questo è vero, come crediamo che sia vero, le masse possono contare sui seguenti organismi genericamente educativi e culturali: la scuola, la famiglia, la Chiesa, e la televisione. Dei quattro organismi, la televisione è di gran lunga il più importante; più della scuola, che nella maggior parte dei casi, specie la scuola media, è un parcheggio; più della Chiesa che ha perduto molta della sua influenza; più della famiglia che è diventata un dormitorio. Si dice che ogni ragazzo guardi la televisione in media cinque ore al giorno. Nessun ragazzo ascolta i genitori o il sacerdote o il professore cinque ore al giorno. Ora i genitori ci hanno messo molti anni a diventare genitori, il prete ha fatto studi particolari e così pure il professore. Soltanto nella televisione, che è tuttavia, come abbiamo già detto, l’organismo educativo e culturale più importante, chiunque, diciamo chiunque può diventare senza studi né preparazione dirigente culturale, educativo, ricreativo. Non credete che questa relativa impreparazione di coloro che fanno televisione sia all’origine della volgarità e superficialità dei programmi televisivi? E che la spontaneità delle carriere televisive non può essere paragonata, a causa della sua specifica tendenza demagogica, a quella di altre carriere dello spettacolo, cioè del cinema e del teatro? Non credete insomma che nella televisione è la massa che educa, diverte e istruisce la massa, cioè se stessa? Col risultato di abbassare sempre più il livello dei programmi televisivi?
Tra gli intervistati, le riflessioni non furono solo ricche di suggestioni disparate, ma anche sviluppate con criteri diversi, tra chi preferì rispondere per punti a ogni singola domanda e chi invece cercò di sviluppare il discorso in maniera più coesa attraverso un unico lungo testo, ciascuno con la propria cifra stilistica; differenza questa che ci rende difficile individuare e classificare i pensieri degli autori sotto un denominatore comune senza tenere conto appunto dell’individualità degli scrittori, del loro stesso fattore di autorialità. Cercheremo dunque qui di tracciare un percorso interessato ad indagare le percezioni del legame tra medium televisivo e realtà cercando ad esempio in quegli autori quel principio di riflessione comune che porterà successivamente gli studiosi ad elaborare un concetto di post-modernità.
Personaggi come Dario Bellezza o Giorgio Caproni hanno visto la televisione come un mezzo alienante, uno strumento di livellamento delle masse dal punto di vista visivo e linguistico, e non quindi di alfabetizzazione delle masse, come fu invece fu il risultato dell’opera della cosiddetta paleotelevisione, quantomeno a livello italiano. Il piccolo schermo piuttosto sarebbe un vero e proprio “mezzo di distruzione di massa” dal punto di vista linguistico, visivo e di comunicazione, imponendo dall’alto nuovi paradigmi di azione ed espressione che alienerebbero l’individuo come un elettroshock; un mezzo che andrebbe dunque egualmente annientato e distrutto, come affermerebbe, forse in maniera puramente provocatoria Dario Bellezza. C’è da dire che a livello linguistico, l’idioma televisivo, da Moravia considerato un “pidgin-italian” composto di “cento parole”, non avrebbe mai avuto la pretesa né di essere classificato come una lingua orale, né tantomeno come una lingua scritta, tant’è che in successivi studi di linguistica, si parlerà di quella dei mass-media come di una lingua “trasmessa”, né orale, né scritta, ma una lingua in qualche modo ricostruita e rielaborata sulla base delle specificità del medium.

Furio Colombo o Vincenzo Cerami, Franco Fortini sono solo alcuni di coloro che meglio si espressero sulla televisione come, forse inconsciamente, il mezzo primo di diffusione di un comune pensiero di post-modernità, in cui non ci sarebbe più nulla di definitivo, nulla avrebbe più davvero un valore e dove il linguaggio mediale non potrebbe che essere semplificato, ridotto appunto a “cento parole” e imporsi come unico riconosciuto, superando in influenza le istituzioni italiane dominanti quali la Chiesa, la scuola, la famiglia, percepite come ormai fallite in autorevolezza, cadute e miscredute come ogni narrazione, ogni linea di pensiero, fino ad allora perseguita a livello individuale o quantomeno dalla cultura dominante. Il trionfo della sottocultura dunque, della “massa che istruisce sé stessa” e, per questo, lo sviluppo di un preoccupante principio d’involuzione.
Interesantissimo a questo proposito il discorso di Giuseppe Conte (il poeta!) sulla televisione come mezzo di diffusione del pensiero di una società basata sulla circolazione della merce. La pubblicità usata per diffondere l’idea di consumo stesso della merce e dei beni. Merce anche il corpo femminile, ipersessualizzato tanto nelle pubblicità quanto nei programmi stessi (così sostiene ad esempio Gianni Celati), merce l’uomo stesso, attanagliato a causa della tv da una gestualità imparata dal medium, da mode imposte dal medium, dall’ossessione per il successo e per un individualismo che oggettifica al massimo grado.
Allo stesso tempo, in altri, tra cui Giuseppe Conte o Dacia Maraini ma anche tra gli stessi autori sopra citati, il grado di responsabilità sarebbe percepito come invertito, o quantomeno duplice. Il rapporto di causalità sarebbe da considerare bilaterale: non sarebbe forse da demonizzare il mezzo televisivo in sé stesso, ma la realtà, il sistema di pensiero della società contemporanea. La televisione sarebbe specchio di una realtà sociale, rifletterebbe la società dello spettacolo. Non sarebbe dunque l’esistenza del mezzo in sé ad essere responsabile di una ipotizzata spettacolarizzazione della realtà, ma al contrario, la realtà stessa sarebbe già tendente di per sé, al servizio di un sensazionalismo diffuso (anche qui comunque in una concezione di inizio di un’epoca postmoderna) che il medium televisivo si limiterebbe semplicemente a riflettere senza alcun filtro e senza alcuna discussione, senza interrogare le proprie specificità sulla trasmissione di un significato.

“Il mezzo è il messaggio”, così la prima domanda di Alberto Moravia chiama in causa la formula di Marshall McLuhan, che riassunse così la sua tesi per cui le specificità di un medium e di un sistema tecnologico di comunicazione avrebbero larghissimi effetti sulla società, sull’immaginario delle masse, sui comportamenti individuali indipendentemente dalle informazioni trasmesse dal medium e dai contenuti proposti. Tra gli intervistati le risposte tendono per lo più a negare la validità della formula di McLuhan, ma a mantenere comunque alto un livello di “colpevolezza” del medium televisivo, o nell’ontologia stessa del mezzo, o nell’offerta dei programmi, considerati all’unanimità di infimo livello. Insomma, la distinzione è chiaramente tra l’ontologia e la fenomenologia del medium televisivo.
L’interesse comune è quello di individuare le specificità e le possibilità del nuovo medium e discuterle con particolare attenzione all’uso del linguaggio: un linguaggio che si serve di immagini e di parole come significanti senza però prendere in prestito le immagini del cinema, comunemente percepite come portatrici di un’estetica, di un significato e di un principio artistico; né imparare dalla lingua letteraria o da quella delle istituzioni. La percezione comune è che la televisione si sia inventata un linguaggio, un significante che tende all’approssimazione e all’annullamento in ogni caso di valenze estetiche e di significati. Si lamenta l’omologazione di una lingua in senso non solo profondamente anti-Gaddiano che avrebbe invece sperato in una proliferazione delle forme linguistiche, ma nemmeno Manzoniano nell’auspicabilità di creare una lingua unica, comprensibile a tutti in pacifica convivenza linguistica: la televisione creerebbe sì una lingua unica, ma sarebbe una lingua omologata, di massa, che abbasserebbe a livelli infimi le capacità espressive di un intero popolo. Non a caso Dario Bellezza parla di italiani che si trasformano in zombies in un’ottica di totale morte e apatia del linguaggio, contrapposta sia alla prestigiosa «lingua di Dante o Petrarca» sia ai dialetti e alla ricchezza degli idiomi regionali .
Si mette in discussione addirittura la validità dell’informazione e del giornalismo, costruito su sensazionalismo e opinionismo, generando anche polemiche e riflessioni non solo sulla trasformazione del giornalismo in tele-giornalismo, ma sulla trasformazione della stampa stessa, del periodico stesso, altrettanto fazioso e incapace di informare realmente.

Insomma, si discute lungamente e con ambizione sulla base di tesi che nelle domande di Moravia sono già chiare ed impostate, per alcuni nemmeno necessitano di risposta tanto siano condivise o tanto sia percepito che Moravia stia più cercando conferme che riflessioni sul tema, come pensa ad esempio più o meno ironicamente Mario Soldati, che non risponde per nulla a tesi che sembrano già assodate per il suo interlocutore.
Resta da chiedersi quanto delle impressioni comuni degli intellettuali negli anni ’80 su quel tipo di televisione sia ancora condiviso e condivisibile oggi; quali dei paradigmi qui solo accennati siano applicabili a un piccolo schermo (o a piccoli schermi), che sempre più si insinua in maniera multiforme e plurale nelle nostre case e nelle nostre vite. Se la crescita del medium abbia avuto risvolti virtuosi o se pur con tutte le diramazioni del caso, i prodotti televisivi (si legga qui anche prodotti legati alle piattaforme di streaming) siano rimasti di basso livello, utili soltanto a riempire dei vuoti sociali e/o istituzionali ma senza pretesa di pedagogia; forse non più al servizio di una cultura di massa ma di una cultura dell’iper-individualità svuotata però dei caratteri primi dell’individuo, ovvero l’eccezionalità e il criticismo.
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