
Il potere delle storie – Intervista a Giovanni Covini
Giovanni Covini è docente di Sceneggiatura, Regia e Recitazione cinematografica presso la Scuola di Teatro Paolo Grassi e la Scuola di Cinema Luchino Visconti di Milano. Regista e filmmaker, ha vinto il David di Donatello e il Nastro d’Argento nel 2006 per il miglior cortometraggio con Un inguaribile amore (2006). Giovanni Covini
Innamorato delle storie, le racconta e aiuta gli altri a scoprire e raccontare la propria; profondamente convinto che le persone possono trovare l’unione nella diversità: come le storie, ognuna diversa dall’altra, mettono in comune e a confronto punti di vista differenti, ma tutti parte della stessa realtà. Questa sua convinzione emerge nelle sue professioni di filmmaker e di insegnante, viste entrambe come modi per conoscere e instaurare un rapporto con il sé e con l’altro da sé. Nel suo lavoro il cinema e il teatro diventano veicoli che permettono alle persone di narrarsi, per conoscersi e farsi riconoscere.

Quando è nata la tua passione per il cinema? E per il teatro?
Durante i primissimi anni di liceo classico. Dovevamo tradurre le versioni di latino ma io preferivo rifugiarmi nella biblioteca Sormani, a Milano, a vedere i film nelle prime sale video a disposizione per i lettori. Un giorno vidi L’amour en fuite di Truffaut e me ne innamorai. Condividevo quello che Truffaut diceva del cinema: “il cinema è far fare delle belle cose a delle belle donne”.
Scoprii così l’amore per il cinema, che per me era Truffaut e le sue storie incredibili. Il teatro invece è stato il cinema come era possibile farlo: quando facevo il liceo era impensabile girare un film dal basso – non esistevano gli smartphone e altri mezzi tecnologici a basso costo che oggi tutti abbiamo a disposizione – perciò ho cominciato a fare teatro e ho scoperto che per me poteva essere un modo straordinario per continuare a coltivare l’altra mia grande passione.
Cinema e teatro: due arti simili ma al tempo stesso profondamente differenti. Come riesci a tenerle unite?
La parola che le unisce per me è acting, cioè il luogo fisico in cui delle battute prendono vita: il lavoro sull’attore, al di là del fatto che davanti possa esserci una macchina da presa, oppure delle persone intorno che assistono. Io rimango molto legato all’esperienza del cinema, perché nel lavoro con l’attore per me non è importante raggiungere la stabilità di un risultato ma rubare alla vita dei momenti straordinari e tenerli per sé. Il teatro ha la bellezza incredibile nell’avvenire in presenza, davanti al pubblico. Il lavoro con gli attori è il luogo in cui le due arti si uniscono.

Insegni regia e recitazione cinematografica: com’è il rapporto con i tuoi alunni?
È un po’ paradossale: i miei alunni hanno l’impressione che a me piaccia tantissimo insegnare anche se non è esattamente così, però mi piacciono le persone che si affacciano alle storie, perché ogni volta che qualcuno si affaccia a una storia, ha voglia anche di guardare dentro sé stesso. Questo mi seduce sempre moltissimo. Mi piace aiutare a far scoprire a ognuno la propria storia che custodisce dentro di sé. Quindi più che avere allievi, penso sempre di essere circondato da persone che insieme stanno attorno ad una storia e la condividono con gli altri.
Il confronto che avviene a lezione con i tuoi alunni è fonte di ispirazione per te e il tuo lavoro?
Sì, è d’ispirazione per il mio lavoro ed è il mio lavoro. Di recente parlavo con un ex allievo che mi confidava che lui, come attore, non è tanto interessato a convincere il pubblico di qualcosa, ma a capire a cosa noi, insieme, possiamo dare vita di più grande di noi. Questa mi è sembrata una forma quasi di preghiera, un’ispirazione profonda.
Come si trasmettono agli allievi le conoscenze pratiche?
La cosa più difficile da comprendere è che la vita è sporca, non è pianificata. La vita avviene meravigliosamente non perché qualcuno la guardi. Quando noi proviamo una scena, pensiamo di fare qualcosa di bello perché qualcuno la guarderà. La scena, invece, funziona quando coincide con la vita che accade così com’è, senza l’obiettivo di intrattenere: la semplicità libera dalla banalità. È banale quando si cerca di fare una bella scena, perché le belle scene sono tutte uguali. È straordinaria quando la scena avviene nella sua semplicità del momento.

Ti senti più regista o insegnante?
Io mi sento molto di più filmmaker, anche se le volte in cui io riesco a farlo sono molte meno di quelle in cui insegno. Però io sento di essere davvero me stesso quando faccio il mio lavoro di filmmaker. Mi piace comunque stare con le persone e lavorare con le storie. Anche perché spesso ai lavori che faccio partecipano molti ex allievi, quindi a volte mi chiedo se stessi già girando un film mentre insegnavo.
Le due professioni come si influenzano a vicenda?
Insegnare in una scuola come la Paolo Grassi mi dà la possibilità di allenarmi nel lavoro sugli attori e sulle storie molto di più rispetto alla sola professione di filmmaker. In quanto filmmaker, i lavori che si possono realizzare si riducono, data la mancanza di risorse necessarie. Quindi anche il tempo che si passa a lavorare con gli attori è minore. Insegnando, invece, il tempo passato con gli attori si dilata anche solo nel corso di un anno. Ad esempio, insegnando nel corso attori, si lavora un mese e mezzo di fila con dodici ragazzi, molto talentuosi, che però non sono ancora pronti e devono ancora imparare.
Secondo te l’arte può avere un impatto sulla vita delle persone?
Ce l’ha e l’ha sempre avuto. Nonostante il materialismo in cui è sprofondato il nostro mondo, desideriamo e cerchiamo continuamente la bellezza. Ce ne sono infiniti livelli soggettivi. L’arte è compresa in questi livelli di bellezza. Giovanni Covini
E la tua arte? Come vorresti che influisse sulle persone?
Io credo che ognuno di noi sia un centro di coscienza e di influenza nel momento in cui trasmettiamo un segnale per comunicare qualcosa. Vorrei che, guardando un mio lavoro, le persone percepissero che è molto più importante quello che ci unisce rispetto a quello che ci divide. Sono molto affezionato a uno dei sette principi della filosofia ermetica secondo cui in realtà gli opposti non esistono in quanto tali. Esistono i diversi punti di vista, che però fanno parte sempre della stessa realtà, vista da prospettive diverse. Spero nei miei lavori di far percepire questo desiderio di allineamento su una stessa scala di misura, in cui si colgono diverse posizioni.
Ti è mai capitato che qualcuno ti dicesse l’impatto che ha avuto sulla sua vita?
Mi è capitato che me lo dicessero durante i corsi che faccio. Proprio per questo sto trasformando la mia professione in acting coach, formulando un coaching narrativo con cui aiuto le persone a vedere la propria identità come una storia, e quindi a intervenire sulla propria vita come se fosse una storia. In questo modo è possibile far capire alle persone che le risorse per andare avanti sono dentro di loro. Questo diventa un modo per ragionare su sé stessi. Nel girare i film io ho sempre molto a cuore che quello che si fa sia autotelico, cioè che abbia nel proprio essere fatto il proprio scopo: dare valore all’esperienza nella sua totalità, oltre il risultato finale indirizzato al pubblico.

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