
Intervista a Chiara Lagani – Eclettismo e libertà a teatro
Chiara Lagani, attrice e drammaturga, nasce nel 1974 e nel 1992 fonda a Ravenna Fanny & Alexander con Luigi De Angelis, condividendone l’ideazione di tutti i progetti. La compagnia ha realizzato innumerevoli spettacoli teatrali e musicali, installazioni, azioni performative, convegni e progetti culturali. L’abbiamo incontrata al Teatro Fraschini di Pavia, dove, in esclusiva per Birdmen Magazine, ha aperto il sipario sulla sua vita nel – e per – il teatro.
Sei a Pavia per condurre un laboratorio per ragazzi delle scuole superiori ispirato al romanzo 1984 di George Orwell. Di cosa si tratta?
Il progetto coinvolge i ragazzi in un percorso che, attraverso gli spettacoli in cartellone al Teatro Fraschini [leggi la nostra recensione di 1984 di Matthew Lenton], ne approfondisce i temi attraverso laboratori allestiti da compagnie di artisti. Ho lavorato su 1984, un’opera letteraria ancora estremamente attuale che io stessa non rileggevo dai tempi della scuola: dai ragazzi non si poteva esigere un vero sforzo attoriale, né si volevano riproporre le discussioni teoriche probabilmente già sollevate tra i banchi di scuola; ho dunque immaginato un sentiero ludico che conducesse dentro l’opera, a metà fra lettura attiva e gioco di ruolo. Insieme con Gianni Farina e Rodolfo Sacchettini abbiamo creato una base strutturale sui temi fondamentali della manipolazione mediatica e dei dubbi di identità, ad esempio assegnando identità segrete che nel gioco vengono svelate dagli altri attraverso esercizi teatrali molto semplici. Abbiamo affrontato in maniera “leggera” temi complicatissimi, che a parole avremmo forse impiegato settimane per sviluppare. Sono contenta di come hanno reagito i ragazzi, è stata un’esperienza preziosa.
Fanny & Alexander si definisce una “Bottega d’arte”…
L’idea di Bottega è un concetto artigianale che prevede la partecipazione di figure professionali diverse. L’assunto è che l’arte sia una cosa sola, una visione ereditata dal teatro anni ’90. Nel progetto Ada o Ardore, per esempio, abbiamo lavorato con il filmmakersgroup Zapruder, senza fare distinzione fra approccio tradizionale e apporto multimediale. Abbiamo cominciato tardi a lavorare negli spazi codificati, e negli ambienti che proponevamo si incontravano tutti i media: dal video alla pittura, qualunque cosa fosse necessaria convergeva a creare un’opera-mondo, per usare un concetto rinascimentale come quello della Bottega. Tante anime artigiane unite sotto una firma, come Bernini…
O come la Ferrante…
Credo che lei sia un’individualità, e che sia una donna. Avrà i suoi collaboratori, certo… Ma tutti noi abbiamo qualcuno che ci dà un aiuto. Ho divorato L’Amica geniale quando tutti i libri erano già usciti: era un fenomeno di tale successo che inizialmente opponevo resistenza. Gli amori nascono come micce improvvise, ma vanno messi alla prova: per un anno ho sottoposto il desiderio di portare in scena quella storia a continui esami. Alla fine è venuto alla luce Storia di un’amicizia.
A proposito di Storia di un’amicizia: quali sono state le scelte drammaturgiche e di regia rispetto a L’amica geniale?
Abbiamo scelto di mettere in scena due sole attrici, concentrandoci sull’amicizia tra Lila ed Elena: quei corpi – come accade nei giochi tra bambini, che interpretano tutti i personaggi della loro fantasia – sono attraversati dalla miriade di voci di un universo epico che dagli anni ‘50 arriva a oggi, esplodendo in un pullulare corale di presenze: la massa informe del rione è una sorta di materia oscura che agisce come individualità; la stessa Storia diventa un personaggio. Per rendere l’idea di questa ricchezza senza perdermi ho selezionato alcuni eventi archetipici della vicenda che, come dei magneti, attraggono e condensano simbolicamente sia i personaggi, sia tutti gli altri fatti non raccontati. Proprio da questa scissione ho ideato Da parte loro nessuna domanda imbarazzante, ispirandomi all’episodio in cui Lila ed Elena gettano per reciproco dispetto le bambole nella cantina. Ho dovuto aprire – smarginare, direbbe la Ferrante – il tessuto narrativo, ampliando la risonanza del gesto fondativo di quell’amicizia. L’immagine delle bambole che prendono vita può parere un tradimento verso il libro, ma è per me un’operazione di sincero amore verso l’opera. L’idea mi è arrivata dal lavoro compiuto su I libri di Oz, che ho antologizzato per Einaudi e da cui è poi nato uno spettacolo nel 2018: nell’opera di Baum mi ero imbattuta in una bambola che parlava in versi bellissimi e terrificanti, immagine a cui ho sovrapposto diversi materiali poetici e personali; i versi della poetessa polacca Szymborska convivono con le filastrocche di Toti Scialoja, un sincretismo audace che si è rivelato efficace. L’ideazione è sempre una fase delicata per l’autore, che, come una donna incinta, deve prestare attenzione alle esperienze che vive ed introietta. Sebbene abbia amici e colleghi che si astengono dal teatro durante la “gravidanza”, ho sempre creduto che l’opera in potenza, essendo frutto della vita, debba continuare ad esservi esposta.
Cosa consigli agli aspiranti scrittori per il teatro?
Il drammaturgo, proprio come un chimico, deve saper scegliere gli ingredienti giusti – materiali testuali, immagini, reperti di vario tipo – e prevedere almeno qualcuna delle reazioni di attrazione e repulsione che avvengono nell’alambicco della creazione. Non deve dimenticare gli attori, ciascuno carico dei fantasmi e delle esperienze della propria vita, per preservare ciò che succede in quel “laboratorio” dall’inquinamento e dalle derive psicologiche e fisiche più rischiose. L’opera è un animale che prende vita, e la scrittura deve imparare a stare in ascolto, con fiducia, seguendolo nelle sue necessità. Il drammaturgo è un’antenna vigile, uno strumento umile capace di captare e valorizzare la vita, più mobile ed intelligente di noi: ciò che si deve perseguire è la qualità della testimonianza.
Raccontaci del vostro lavoro sull’eterodirezione, cioè l’assegnazione all’attore, in tempo reale tramite auricolari, di indicazioni testuali e gestuali.
Sperimentammo questo dispositivo quasi per caso, più di dieci anni fa, durante lo spettacolo Dorothy. Sconcerto per Oz, parte del progetto pluriennale dedicato a Il Mago di Oz – sì, è una nostra ossessione. Con Luigi De Angelis decidemmo di inserire una partitura rigida nelle cuffie di un attore che doveva doppiare tutto il film di Fleming (che poi è diventata la performance Him), per ottenere un’assoluta precisione: la sua performance costituiva la spina dorsale drammaturgica di una narrazione più complessa, corale, con altri attori e musicisti. Non immaginavamo le implicazioni artistiche di questa pratica. L’eterodirezione ha creato una qualità attoriale mai vista prima: l’attore è in abbandono lucido a una forma di possessione, di ebbrezza; non dovendo ricordare nulla può dedicarsi alla qualità sentimentale di azioni e parole, proprio perchè come un computer si “libera spazio” nel disco rigido.

Ci sono state implicazioni anche dal punto di vista contenutistico. Con Francesca Mazza abbiamo creato West, lavorando sulla manipolazione occulta: il testo, che lei non sapeva a memoria, mescolava parti della sua vita a parti finzionali, tratte da Il Mago di Oz e costruite tramite interviste. L’attore, normalmente, fa scudo della sua partitura; questo dispositivo implica invece una fragilità estrema, una nudità esemplare, in cui si gioca una libertà sconfinata: si crea un fluido energetico tra pubblico e platea che instaura una sorta di meccanismo di neuroni a specchio. Dalla consolle, in fondo alla sala, si può vedere il pubblico riflettere i movimenti degli attori: solitamente questo succede nelle partite di calcio, quando ci si identifica con l’atleta e fai goal insieme a lui, ma non a teatro. Nella serie dei Discorsi, che indaga il rapporto tra singolo e comunità attraverso la retorica pubblica e dei media, un “fantasma” si impossessa dell’attore attraverso una determinata “impronta” vocalica o un’immagine mentale: a dare le direzioni non è una voce neutra, ma quella di un personaggio, come Silvio Berlusconi o Maria De Filippi, che lascia una vera e propria orma, tanto che anche i tratti fisici finiscono per rassomigliare al personaggio. L’abbiamo usata anche in Storia di un’amicizia, perchè un testo può attraversare le arti e scriverci come se fossimo una pagina vivente. È un filone di ricerca che ci ha condotto in tante esperienze diverse e che tutt’ora stiamo sperimentando: finchè continuerà a porci delle domande vive lo terremo stretto.

L’interattività e la virtual reality sono sempre più protagonisti del nostro presente e sicuramente costituiscono il nostro futuro. Questo influenza il teatro?
Nello spettacolo-game Oz, che ha debuttato qualche mese fa, ho lavorato proprio su questo: i bambini diventano responsabili delle vite dei personaggi, scegliendone i destini tramite dei telecomandi, un po’ come in Bandersnatch, la puntata interattiva di Black Mirror [la nostra recensione di Bandersnatch qui]. Alcune maestre erano preoccupate per i meccanismi di dipendenza tecnologica dovuti all’uso del telecomando, ma i momenti della scelta sono tutt’altro che passivi: la platea di bambini vocianti mette in scena una discussione comunitaria, viva, per decidere quale pulsante premere. Sono molto ricettivi sulle questioni morali, se poste in maniera ludica, perché il gioco è il loro linguaggio. I bambini capiscono che il razzismo è una cosa brutta, che bisogna tollerare l’altro e il diverso, ma non lo interiorizzano; invece una penalizzazione derivata da una scelta rimane più impressa di mille morali espresse a parole. Ad un certo punto dello spettacolo gli indiani entrano in scena – è noto il razzismo di Baum verso i nativi americani – ed i bambini devono scegliere se l’indiano può continuare a stare nella storia o se deve scomparire, che in qualche modo equivale ad ucciderlo. Le scelte comportano sempre una perdita, una rinuncia, ed imparare a scegliere vuol dire diventare grandi.
Siamo abituati a rimanere costantemente “connessi”, e il teatro viene spesso fruito passivamente. Cosa rappresenta per voi lo spettatore?
Il gioco del teatro si realizza in un luogo, convenzionale o meno, dove alcune persone sono in platea e altre sul palco. Il contratto finzionale prevede sempre questi due poli. Il pubblico è un membro attivo dello spettacolo, e come gli attori ha un ruolo che non si può dare per scontato. Per ottenere la sua adesione, tutti gli artisti, non solo di teatro, devono inventarsi delle forme di coinvolgimento. Quando abbiamo cominciato a far teatro eravamo dei ragazzini, ed il problema della ricezione assumeva dimensioni gigantesche anche a livello teorico, perché eravamo alla ricerca di un’identità teorica. Ponte in core, uno dei nostri primi spettacoli, era ambientato in un teatrino anatomico con 24 spettatori seduti su degli alti scranni, proprio come se stessero assistendo ad una pubblica anatomia, che poi metaforicamente era lo spettacolo stesso. È fondamentale pensare lo spettatore, solo sulla sua poltrona, come parte di una comunità. Ho scritto uno spettacolo con Elio Germano, La mia battaglia, che indaga la manipolazione di massa e l’ossessione per il totalitarismo. Il potere viene preso tramite una lenta ascesa basata sulla retorica: le persone si trovano ad aver applaudito, senza rendersene conto, una battuta a metà tra un discorso qualunquista e condivisibile, ed il puro nazismo. Quando se ne accorgono è ormai troppo tardi. Disegniamo una parabola di potenzialità: le forme di populismo hanno delle derive incredibili e rischiose. Alla fine dello spettacolo la gente si infuria con Elio. Il teatro può ancora creare queste comunità provvisorie, ha il potere di innescare la discussione, infervorare le persone.

Quello della manipolazione è un fil rouge del vostro lavoro, che spesso sfocia nel teatro politico.
È importante affrontare la manipolazione di massa in teatro, soprattutto di questi tempi, e soprattutto partendo dai ragazzi, esposti ad una realtà, resa dai social, di massificazione violenta di cui devono essere consapevoli. C’è chi si è sentito ripiombare nella quotidianità vedendo il nostro lavoro sul populismo berlusconiano e le derive della sua televisione dei Discorsi, ma il teatro è e deve essere specchio della realtà. Io stessa, nata negli anni ’70, sono figlia del berlusconismo. L’Italia vive la costante lacuna di una figura paterna, alla ricerca del maschio forte capace di raddrizzare il destino del paese: i totalitarismi nascono dalla speranza della comunità di poter trovare un padre metafisico che in qualche modo supplisca la mancanza di autogoverno e spirito critico. C’è un fantasma nero che aleggia dentro l’identità collettiva del nostro popolo, che nei corsi e ricorsi della storia inevitabilmente sembra tornare. Per comprenderlo va riconosciuto come una forza interna a noi, e non esterna.

Questo inconscio è messo in scena nella performance Him, in cui Hitler – ditt”attore” per eccellenza – interpreta da solo tutti gli attori e l’ambiente del film Il mago di Oz (1939). È un cortocircuito ispirato anche all’opera di Cattelan che ritrae Hitler come un bambino. Lo stesso mago di Oz, raccapricciante manipolatore del popolo, d’altronde altro non è che un semplice piccolo uomo. Implicazioni politiche anche nel progetto adesso in tournée: Se questo è Levi, che racconta la sua esperienza senza partorire sentimenti di rabbia e vendetta contro i suoi stessi carnefici, con serenità struggente. La saggia accettazione del fatto che l’umanità incuba queste larve, che si manifestano periodicamente, è l’antidoto per liberarsene. Il nostro è sempre un discorso sulla libertà, in tutte le sue forme.

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