Alla fine racconto sempre la stessa cosa – Intervista a Caterina Filograno
Anche in casa si possono provare emozioni forti è l’ultimo spettacolo di Caterina Filograno, drammaturga e attrice, che riconferma la sua poetica dopo le proposte di L’ultimo animale e Oleandra. In Anche in casa, Filograno prosegue nel solco di una ricerca innanzitutto estetica: le interessa l’armonia della forma, e sempre nei suoi spettacoli l’appagamento dello sguardo è un’esperienza intensa che prescinde dal contenuto.
Ogni famiglia, si potrebbe chiosare, “è meridionale a modo suo”.
Nella villa immersa nella secca campagna pugliese, a pochi passi da un mare consolatorio e materno, si svolgono le vicende di una famiglia capace di provare, e far provare, emozioni forti.
Caterina Filograno scrive molto, e scrive bene. E per la prima volta si cimenta con una faccenda privata, una storia più personale ma che rifiuta ogni retorica prescrittiva. Tutt’altro. Nel rigore severo del suo metodo, le parole di questi personaggi, per la prima volta carnalmente verosimili, assumono valore solo quando si concretizzano in una forma che merita di essere contemplata e vissuta.

Mise en éspace a Villa Traversa, Bari. ©Marcella Foccardi
Io ho avuto la fortuna di assistere a una prima mise en éspace di questo testo, prodotto da Sardegna Teatro, e che comincia una tournée che ti auguro fortunatissima. Ricordo che hai sottolineato, tramite voce di donna, l’assenza di personaggi maschili. Ma quindi, Caterina, hai fatto non solo l’autofiction, ma pure l’autofiction femminista?
Sono entrambe caratteristiche che vedo ricorrere con frequenza crescente nella proposta teatrale contemporanea. Non c’è niente di male, se uno spettacolo è fatto bene, purché non si incorra nel cortocircuito di programmare solo ciò che è programmatico, assertivo cioè nel prescrivere contenuti che sono percepiti come giusti.
Quindi solo antieroine in questo spettacolo?
Nella mia vita le donne sono state insieme le mie più grandi amiche e le mie più grandi nemiche. Eva Perón, nella sua autobiografia, scriveva che noi apparteniamo a una razza superiore. Non so se sia vero — forse lo scoprirò dopo la morte — ma so che meritiamo una disamina estremamente attenta, proprio in virtù della nostra complessità. È per questo che nei miei spettacoli le protagoniste sono quasi sempre donne: perché sanno contenere forza e fragilità, violenza e tenerezza, luce e nero, senza mai ridursi a una sola cosa.
E in questo lavoro ho avuto la fortuna di attraversare questo territorio insieme alle uniche attrici che avrei mai voluto con me: Gloria Busti, Simona Senzacqua, Francesca Porrini e Maria Grazia Sughi. Ciascuna, con i propri tempi e la propria modalità, sta portando in sala prove il proprio lato antieroico, il proprio buio, le proprie ferite, la propria vulnerabilità. Si stanno mettendo a nudo, ogni giorno. Mi stanno dando una fiducia enorme: parliamo, discutiamo, crolliamo, ridiamo, ripartiamo. Sono loro a rendere possibile questa materia viva.
Senza di loro, questo spettacolo non avrebbe né la sua verità né la sua potenza.
Sveli spesso un gioco metateatrale nei tuoi lavori, ma in questo ancora di più perché non neghi l’impronta biografica. Questa vicinanza emotiva con la materia, se e come ha modificato il tuo lavoro da regista e attrice?
Stare dentro e fuori non è mai facile, ma questo spettacolo mi ha messo particolarmente in crisi per tante ragioni. Come hai detto, tocca corde emotive che pure confluivano anche in quelli precedenti, ma mai così apertamente e in profondità. Mi sono sentita nuda nel narrare e nell’essere narrata. Anche la produzione di Sardegna Teatro, a cui devo molto, ha investito in questo spettacolo e ho sentito la giusta e legittima pressione di questa fiducia.
Come hai gestito l’ansia durante il processo creativo?
Mi sono affidata innanzitutto a una squadra di persone che stimo e con cui collaboro da tempo, come in una “The Factory” à la Andy Wharol.
Per esempio?
Ritorna Giuseppe di Morabito, con cui ho già collaborato per Oleandra ma anche per la drammaturgia della sua sfilata Ameca (MFW 2025). Per Anche in casa ha curato scene e costumi, permettendo al corpo di parlare attraverso i tessuti e le geometrie. Sono sculture in movimento: non mia madre o mia sorella, o la madre o la sorella della protagonista, ma archetipi. Abiti – paesaggio, sullo sfondo di una scenografia minimalista che li amplifica.

©Valeria Masu
Durante la mise en éspace a Villa Traversa, c’era già traccia di un lavoro sonoro proiettato a rievocare i suoni del paesaggio pugliese. Lì avevamo la fortuna di avere il mare, il vento, ad amplificare quegli spunti sonori. Come hai espanso quella traiettoria?
La drammaturgia sonora è stata curata da Geretz, che ha colto immediatamente proprio quei primi lampi di paesaggio sonoro. Ma desideravo che fossero degli spunti da cui, come anche gli altri collaboratori, potesse emergesse tutta la sua creatività. Gli stimoli sono stati molteplici, da Odissea nello spazio – quando nel prologo i drappeggi prendono vita perché mossi proprio dal vento – a Lux di Rosalìa. La scrittura viaggiava e la musica con lei, se necessario passando anche dal Barocco!
C’era un uccello parlante e filosofo in Oleandra. E qui ci sono i suoni prepotenti dei pappagalli. Perché?
Perché negli ultimi anni i pappagalli hanno letteralmente colonizzato la mia villa in Puglia, e in qualche modo hanno colonizzato anche me. Ogni mattina mi sveglio con il loro verso: a volte mi dà fastidio, a volte mi ipnotizza. Quel suono è diventato il rumore di fondo del mio rapporto col mondo: insieme fascino, disturbo, sorpresa, e una certa ansia per il cambiamento climatico. Perché se dei pappagalli tropicali vivono ormai da dieci anni nelle campagne pugliesi, vuol dire che qualcosa si è spostato — fuori e dentro di noi.
Questi animali sono entrati nei miei spettacoli per osmosi, come simboli naturali dell’inconscio: presenze che vibrano tra sogno e memoria collettiva. Mi piace creare rimandi tra un lavoro e l’altro: in Oleandra c’era l’uccello filosofo, qui ci sono le cocorite, che diventano quasi un coro, un gruppo di Erinni luminose e stonate, un segnale che qualcosa di antico e disturbante continua a bussare. I pappagalli sono il mio onirico quotidiano: il confine rumoroso tra ciò che mi abita e ciò che ancora non capisco.

©Valeria Masu
Quindi un luogo caldo in una forma, e in una scrittura, glaciale.
Sì, ho tentato di trovare un compromesso tra tutti questi mondi. Con una scenografia ridotta all’essenziale, ad esempio, il lavoro sul corpo con Ester Guntin doveva mantenere lo stesso equilibrio poetico.
Volevo che tutte quelle resistenze e quelle frizioni, sottese alla narrazione e quasi mai esplose, attraversassero i corpi. Queste donne sono monolitiche, appunto, saldamente radicate su proprie convinzioni e storie, e questa assenza di dinamica è anche fisica e molto personale, cioè relativa al personaggio.
Permettimi una digressione personale. Sono contenta di sapere che lavori con Ester, conoscenza in comune che risale a una masterclass tenuta in Biennale Teatro da Romeo Castellucci nel 2022.
Sì, ricordo quei giorni ancora con emozione.. Del resto, ce lo siamo sempre dette, lui resta uno dei maestri nel nostro canone di riferimento.
E come dice il maestro, il teatro deve essere..
Deve essere cattivo.
E noi donne sappiamo esserlo.
Tua nonna verrà a vedere la prima in Sardegna?
Non può. Ma mi ha insegnato, come un personaggio uscito da un romanzo di Balzac o Zola, che ci si può trasformare in un indifeso pulcino o in una temibile gazza ladra a seconda degli eventi della vita.
E le donne della tua famiglia come hanno preso questa operazione?
“Va bene, ma non farlo mai più!”
Comprensibile. Ma insieme a loro, indubbie fonti di ispirazioni, ci lasci con dei titoli di riferimento per approcciare questo spettacolo?
In ordine sparso, c’è tanto Luchino Visconti, il suo occhio filmico, la divina Silvana Mangano in Gruppo di famiglia in un interno e tanto altro. E c’è l’altro maestro del cinema italiano, Federico Fellini, soprattutto Giulietta degli spiriti. Poi un po’ di Hitchcock, Kubric, Lynch.
E per attingere a un immaginario femminile stravagante e morboso, ho guardato molto Sofia Coppola e Yorgos Lanthimos.
E libri?
“Storia del matriarcato” di Johann Bachofen, su tutti, e tanto Galimberti.
Pensi di essere riuscita a dire quello che volevi dire?
Ci sto provando da tempo, e mi sento dentro un percorso nitido.
La tieni una cosa da raccontare?, direbbe un altro grande maestro del cinema italiano.
Ce l’ho, e racconto sempre quella. Solo che cerco forme diverse e inedite non solo per dirla, ma anche solo per ripensarla. Come Carmelo Bene, penso che la forma sia contenuto, e cercando forme nuove, trovo modi nuovi di guardare anche agli stessi contenuti, alle stesse urgenze di sempre.
Ma io, alla fine, racconto sempre la stessa cosa.
Lo spettacolo ha debuttato il 22 novembre 2025 al Teatro Eliseo di Nuoro. Prossimamente andrà in scena il 12 e 13 dicembre in Triennale Milano Teatro.
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