
“E un piacere di morte afferra lo spettatore” – Massa e violenza tra i Bros di Romeo Castellucci
Come quando, sporgendosi da una finestra con il corpo inclinato tra cielo e terra, ci si immagina di volare giù, e anche solo quel pensiero di radicale libertà fa correre l’adrenalina lungo la spina dorsale.
La visione di uno spettacolo come Bros rappresenta quel tipo di agnizione: come di un rischio mortale che si potrebbe correre, se solo si avesse l’ardire di indulgere in quell’atto violento che esiste in potenza e dunque può essere immaginato, dunque può essere rappresentato.
L’ultima creazione di Romeo Castellucci ha debuttato al FIT Festival del LAC di Lugano per poi cominciare la tournèe italiana dalla Triennale Milano (per la quale il cesenate è Grand Invité fino al 2024). Come per ogni esibizione firmata Castellucci, sono ormai copiose le riflessioni teoriche (qui tutti gli articoli dedicati all’artista da Birdmen Magazine), essendo anche la Societas un’incisione irreversibile nella tradizione accademica e teatrale. Così, a ogni passo compiuto dal regista, si cercano le radici di una certa poetica, l’evasione dal manierismo incombente, il rischio calcolato del leitmotiv: ogni spettacolo si legge alla luce degli altri come in una perfetta architettura borgesiana di coerenti richiami interni. In verità, scrivere di Bros è un po’ più scrivere di noi che di un qualche principio autoriale.

Potrei condurvi con mano ferma all’interno dello spettacolo, rievocare la scena e inchiodarla su testo. Sarebbe forse doveroso perché, di certo, è possibile ravvisare delle ancore di salvataggio per il critico, alcuni punti fermi che facciano esclamare compiaciuti: “sì, è una sua opera, ha questi dispositivi scenici, ne riconosco la retorica”. In effetti, c’è un artigiano ormai sapiente, che conosce gli elementi di una formula alchemica per la scena, intesa come sistema di discipline sinestetiche perfettamente integrate. Potrei raccontarvi che tutto comincia in un ambiente rarefatto in cui per orientarsi è necessario fare affidamento anche agli stimoli sonori, che segnalano i punti cardinali della scena. C’è la notoria ritrosia del regista a muoversi in un ventaglio cromatico ampio, che lo induce a scegliere la monotonia insistente e consapevolmente asfittica dei colori bui, che vestono la scena di una timidezza vorace: la scala di grigi tutto assorbe, avvolge, protegge.
L’uniformità della coltre di nebbia è rotta dai colpi di una musica martellante – la tecnica elettroacustica è ancora una volta frutto del sodalizio con Scott Gibbons – e cattiva nel suo sorprenderci alle spalle, dice Castellucci, e nel farlo in modo assordante e quindi soverchiante. Il ritmo si insinua dentro tutte le azioni sceniche che, pur nell’eterogeneità, restano ancorate a un principio ispiratore assoluto: la ritualità dell’atto scavato dalla ripetizione ossessiva. Sulla scena succedono tante cose e tutte insieme, come in una wunderkammer in cui lo sguardo non può scegliere su cosa posarsi, ma è invece slabbrato tra i quadri in movimento. Potrei raccontarveli. Dirvi che c’è della tortura esibita, che si vogliono lavare le mani dal sangue, che tutto comincia con la profanazione del corpo di un profeta. Mettervi al corrente che i poliziotti-fantocci rompono prima la schiera militare e poi la quarta parete, che frustano e graffiano e scalpitano, che sono massa aggregata e assoluta, cioè sciolta da un principio morale ordinatore. Non potrei certo dimenticare che il movimento è interrotto dallo stare: succede quando i corpi si immobilizzano in posizioni evocative nel desiderio di autoglorificarsi, o quando l’adorazione è rivolta all’effige di turno srotolata come manifesto programmatico sulla scena.
Potrei, infine, provare a restituirvi uno spazio estremamente vivo, in cui i sensi re-agiscono a un testo assente e collimano con un linguaggio che strappa i bordi delle cose e dei corpi. Ma questa forma comunicativa, che si sottrae alla schiavitù della scritturalità senza per questo essere meno drammaturgica, è refrattaria anche alla descrizione. È il linguaggio dei sensi a veicolare l’informazione tramite l’aggancio invincibile dell’emozione.

L’informazione in questione non è dissimile da quel piacere di morte che, a detta di Holderlin, afferrava i popoli in procinto di combattersi. C’è una vocazione alla distruzione, un’ebbra sottomissione alla pulsione di morte, minuziosamente disciplinata e organizzata collettivamente: ed è esattamente questa precisa ritualità delle azioni a costituire il pericolo più grande.
Vi verrà detto, di Bros, che è un esperimento antropologico perché per certi versi è improvvisato da “uomini della strada” che non sanno che fare e copiano, non hanno idee e trovano una materia, non trovano una materia e usano sé stessi (questi alcuni dei motti latini recuperati da Claudia Castellucci e distribuiti in sala): soprattutto, uomini della strada disposti a credere e obbedire agli ordini del demiurgo-regista. In verità, nonostante la coincidenza tra significante e significato che consentono a Castellucci di non alludere allegoricamente ma di innervare la rappresentazione stessa della materia fondamentale, l’eterodirezione in divenire non è la cifra distintiva dello spettacolo. Infatti, è in fondo nella natura del performer l’obbedienza a un canone concordato: l’unica differenza è che il patto si rinnova ogni sera sulla disponibilità a lasciarsi cogliere dall’inaspettato, dall’imprevisto, persino dal bizzarro.
L’analogia più significativa con l’umano sta invece nella cornice dettata dalla prassi, che consente a Castellucci di non sublimare la violenza ma di disciplinarla, di inquadrarla in un sistema di regole che oscillano attorno a un asse ben definito: il patto della performance che consente di distruggere e di affermare insieme. Similmente, l’ apparato punitivo del mondo contemporaneo rappresenta la prassi strutturale in cui la violenza – ontologicamente costituita – è ammessa e, anzi, necessaria. Castellucci sceglie di percorrere la via del sistema poliziesco nel suo gioco dentro e fuori dal simbolo, che riempie di significato non attraverso i manganelli, ma appellandosi a un codice prestabilito e condiviso di violenza accettata in quanto prescritta dalla legge (e poi collusa e silenziata quando ne oltrepassa i confini labili). In Bros il dio punitore di Geremia si fa Leviatano esigente della nazione.

La pena detentiva fa parte di questa moderna narrazione borghese: da Kircheeimer e Foucault abbiamo appreso che un principio illuministico di proporzionalità quasi-scientifica regola la violenza, restituita nella forma della detenzione o della pena di morte. Soprattutto, sappiamo che il fenomeno punitivo è intrinsecamente connesso a una forma di devianza, e che la natura stessa del deviante si plasma nel contesto sociale di riferimento. In questo sta la ragione ultima per cui guardare questo spettacolo: per riconoscerci come performer in una struttura equivalentemente regolata eppure più pericolosa, perché reale. In Bros persino l’ignoto – il buco nero dell’animale come essere puro che entra in scena o della sorpresa del comando nuovo – subisce il disciplinamento coercitivo della spettacolarità.
Allo stesso modo, l’opera non trascende il principio adorniano per cui l’arte è complessione di verità in quanto espressione storicamente determinata, ma mantiene una spontaneità garantita dal rapporto con il momento estetico che ordina gli elementi dell’empiria. Per questo riesce ad essere informazione ed emozione: perché colpisce alla gola inscenando l’essenza, intesa come modo d’essere d’un soggetto reale in un contesto di rapporti di forza. E per questo guardare Bros è curvare la testa verso le proprie mani e i propri piedi coinvolti: è vedersi tanto nell’organizzazione capitalistica del lavoro quanto nella corporativizzazione del giudizio, tanto nella fabbrica quanto in carcere, nella razionalità amministrativa weberiana e nella deformazione plastica dei volti sotto il dominio dell’algoritmo.
Bros è sia la nevrosi che la sua terapia, quando tutto a un tratto un piacere di morte afferra lo spettatore.

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