
Il Gattopardo – A 60 anni dalla Palma d’Oro
23 maggio 1963, sessant’anni fa esatti al Festival di Cannes Luchino Visconti vinceva la Palma d’Oro per quello che è rimasto e rimarrà il suo capolavoro più celebre, il titolo a cui il suo nome viene più facilmente accostato: Il Gattopardo. Le ragioni potrebbero essere molteplici: dalle epiche vicende produttive al cast stellare, dal forte messaggio politico alla maestosità del citatissimo e saccheggiato ballo. Eppure nessuna di queste peculiarità, da sola, basterebbe a renderlo l’unicum che è. Il connubio di grandiosità intrecciate e sovrapposte lo rende inarrivabile e a suo modo il più straordinario affresco risorgimentale del nostro cinema.

Un romanzo osteggiato, passato sottotraccia, poi vincitore inatteso del Premio Strega diventa l’occasione per realizzare, a quasi dieci anni dal controverso Senso, un altro affresco dell’Italia in fase di unificazione – il film del ’54 si focalizza sulla Terza Guerra d’Indipendenza che porterà all’annessione del Veneto, sui mesi che precedono e seguono la vera e propria Unità. In un’articolata filmografia che fino al 1965 racconterà in parallelo la nascita dell’Italia e il repentino salto in avanti di una contemporaneità che sguazza nel benessere di un boom effimero e illusorio. I venti del cambiamento che invadono la Sicilia con l’arrivo dei garibaldini, ma ancor prima con i moti palermitani del 1848, smuovono le coscienze, le scelte e l’agio della famiglia di Fabrizio, Principe di Salina (Burt Lancaster), uno fra i nobili più in vista sotto la monarchia borbonica. Il cambiamento, beffardo e seduttore, ha la sfrontatezza e la bellezza disarmante della giovinezza di Tancredi (Alain Delon), nipote di don Fabrizio, e della borghese Angelica Sedara (Claudia Cardinale), figlia del nuovo sindaco di Donnafugata.

Si tratta di un vento inarrestabile che muove le tende di casa Salina per poi incarnarsi nel riflesso di Tancredi che lo specchio mostra a don Fabrizio mentre si rade: un giovane pronto a schierarsi con i Savoia poiché «Perché tutto rimanga com’è, c’è bisogno che tutto cambi». Il nuovo, che avanza come una malattia dilagante e fatale, si manifesta con la polvere argillosa che ricopre gli abiti dei nobili una volta giunti a Donnafugata, una polvere che nessuno spazza via e a cui nessuno fa caso perché ormai è data per scontata, radicata nelle convenzioni di una Sicilia stanca che non interviene e non si schiera perché, seppur sfibrata dai secoli di dominazione, si sente divina ed eletta – lo dice chiaramente il Principe di Salina al piemontese Chevallay. I gattopardi spariranno e il loro posto verrà preso dagli sciacalli, arrivisti astuti e arditi volta bandiera, sfrontati traditori di ogni ideale. L’Unità segna in tutto e per tutto la fine della nobiltà e l’avanzata della borghesia, nuova classe dirigenziale che farà politica, siederà in parlamento, attuerà riforme e – il Principe in maniera sibillina lo prevede – commetterà gli stessi errori che tutti i “dominatori” commettono senza conoscere la realtà con cui hanno a che fare.

L’aspetto politico, fortemente connotato da simboli inequivocabili, procede di pari passo con l’esaltazione dello splendore formale e narrativo che, seppur mai contenuto, esplode in tutta la sua dirompente maestosità nella scena del ballo, quaranta minuti di mondanità per cedere il passo al futuro, ai nuovi sposi. Non a caso, a differenza del romanzo, Visconti sceglie di rendere questa scena il congedo del Principe che, dopo essersi esibito in un valzer con Angelica si fa da parte, inseguito da un ineluttabile presagio di morte palpabile e forse segretamente auspicata. Il ballo, a cui il regista si dedica anima e corpo e che gira per settimane in notturna, è il tentativo di Visconti di ridar forma ad un ballo in maschera a tema Unità d’Italia a cui lui stesso, ancora bambino, prese parte, a Villa Erba. La meraviglia della perfezione, del dettaglio, della magnificenza, il fruscio delle sete, il profumo dei fiori, lo sfarzo di un mondo decaduto, incantano lo spettatore – equiparabile al piccolo Luchino – e lasciano che lo sguardo del Conte coincida con quello del Principe, quasi a lasciar emergere il suo non ritrovarsi più in un mondo che rapidamente e incessantemente si trasforma (lo sottolineerà in alcune posteriori interviste).

Le storie, gli aneddoti, i misteri che avvolgono il capolavoro di Visconti sono innumerevoli, alcuni di questi indagati nel volume Operazione Gattopardo di Alberto Anile e Maria Gabriella Giannice, altri diventati leggende metropolitane, accreditate e smentite dai protagonisti, dagli addetti ai lavori e dai critici. Ciò che oggi resta per un pubblico cinefilo, ma anche per uno sguardo nuovo ed immacolato che si approccia alla visione, è la grandezza di interpreti diretti con maestria e calibrata attenzione, caratterizzati e impressi nel tempo con gesti che, senza troppe parole li connotano, come la risata di Angelica e il labbro morsicato con febbrile tensione, l’eleganza e l’imponenza statuaria di don Fabrizio, l’atletica e giovane prestanza di Tancredi, la goffa inadeguatezza di Don Calogero Sedara (Paolo Stoppa), la fredda alterigia della Principessa (Rina Morelli). Inoltre, permane, come un profumo persistente, la temeraria e stoica volontà di schierarsi, di prendere posizione, di non sottrarsi al compito di essere impegnati e allo stesso tempo di essere raffinati, mitici, dèi illustri di un’estetica che, seppur lontana, non è sorpassata e neppure invecchia, lascia a bocca aperta, stupisce, fa sognare ma, soprattutto crea coscienza e insegna più di mille saggi di storia.
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[…] con il noto adagio per cui se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Il contesto è quello di una transizione epocale, che nell’immaginarsi l’avvento della repubblica […]