
Gravity 10 anni dopo – È ancora fantascienza?
Dieci anni fa usciva Gravity di Alfonso Cuarón, un film che generò non poche discussioni: tra gli elogi di un cinema di spettacolarità postumana, votato in questo caso quasi totalmente alla CGI, e chi ne metteva in discussione la reale profondità e velleità filosofica.
Certamente Gravity è stato un caso cinematografico per grandezza produttiva, per l’uso totalizzante della computer grafica, per essere uscito in un momento di ritorno della grande fantascienza speculativa e filosofica al cinema. Gli anni ‘10 del nostro millennio hanno conosciuto un momento di fulgore per la science-fiction, al di là del gusto personale, abbiamo visto un vivo ritorno del genere sotto varie forme produttive ed espressive. Dalla cinetica di Mad Max: Fury Road (forse il film del millennio) e Snowpiercer alla sospensione di Arrival e Her, passando per il pessimismo cosmico di Melancholia, fino alla sessualità celeste di High Life e Under the Skin e poi ancora a notevoli prodotti più indipendenti come Upstream Color e Vanishing Waves. E la lista sarebbe ancora abbastanza ricca.
Ma Gravity è un film di fantascienza?

Se la trama ci racconta dell’astronauta Matt Kowalski (George Clooney) e la dottoressa Ryan Stone (Sandra Bullock) che cercano di sopravvivere alla distruzione della stazione spaziale sulla quale erano in servizio, il film è più di tutto un melodramma di rinascita per il personaggio principale interpretato da Bullock. Il titolo si riferisce alla grande assente di questo film, la gravità, i corpi dei protagonisti infatti fluttuano per tutto il tempo nello spazio alla ricerca di salvezza. Il film si apre con un magnifico piano-sequenza che segue i procedimenti di messa a punto di alcune mansioni tecniche, i personaggi volteggiano nello spazio seguiti dall’occhio del “Chivo” Emmanuel Lubezki, – premio Oscar per la fotografia anche per questo film – ma questo piano-sequenza è totalmente post-prodotto per cui il film si apre con un grande interrogativo sulla natura stessa del mezzo. Sono passati dieci anni e mai più di ora questo quesito è ampiamente vivo.
Attraverso i dialoghi dei due astronauti capiamo la ferita della dottoressa Stone che ci fa già intuire a cosa la donna debba riconnettersi dopo una perdita grave. E allora quell’assenza di gravità diventa metafora di perdita di speranza e di allontanamento dal mondo, perché in effetti uno degli elementi più interessanti, visivi e simbolici, è questa vicinanza costante alla Terra. La grande biglia blu è presente e visibile per quasi tutta la durata del film: è il faro, la luce, l’obiettivo ma anche la radice da cui ripartire. Forse Gravity è l’unico film nello spazio mai così vicino al nostro Pianeta.
Non è affatto un elemento da sottovalutare, se ancora ci stiamo chiedendo quanto questo sia un film di fantascienza.

Il genere in questione presuppone per sua natura un allontanamento fisico e mentale dalla Terra e Gravity in questo tradisce, ma soprattutto decostruisce.
La lotta per la sopravvivenza di Ryan diventa il modo per uscire dall’abisso nero del dolore e il personaggio del pilota Kowalski (il nome è un chiaro riferimento a Punto Zero di Richard C. Sarafian) è una figura guida di virgiliana memoria, che accompagna la protagonista dall’oscurità alla luce.
Il regista messicano, che già si era cimentato con la materia fantascientifica con I figli degli uomini, gira il suo film più cupo ma di incredibile slancio vitale e, prima di addentrarsi nell’autobiografia di Roma, realizza quello che può essere il suo lavoro paradossalmente più intimo.
Gravity è un film sì spettacolare, pirotecnico, ma è anche un viaggio spirituale e materiale, un racconto di rinascita che riprende elementi ricorsivi della fantascienza (i corpi fluttuanti degli astronauti ricordano il feto cosmico di 2001) per poi avvicinarsi più all’uomo che allo spazio profondo. Pecca forse un po’ di retorica (lo sdolcinato finale), ma l’esperienza è ancora oggi totalizzante e poi… «Bisogna ammettere una cosa: la vista da qui è unica!»
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