
“Roma”, tutta l’anima di Cuarón in 65 mm
Di Roma, ultimo film di Alfonso Cuarón distribuito da Netflix e su Netflix dal 14 dicembre, si è già detto e scritto molto. Ha vinto a Venezia, è stato e sarà in alcune sale italiane grazie alla Cineteca di Bologna, non sarà invece, tra gli altri, all’Anteo di Milano, capofila del movimento in favore della sala come «elemento identitario essenziale dell’esperienza di fruizione».
Se il film è fortemente divisivo per questioni terze all’arte e in cui non voglio addentrarmi, lo è meno, appunto, sul piano artistico: il plauso è quasi unanime. La campagna verso gli Oscar procede a grandi passi ed è ormai probabile che il 24 febbraio, su queste pagine, ci si possa trovare a fare la conta dei premi.
Ma, a parte le profezie da quattro soldi, cosa rende Roma un tale successo?
Un bel bianco e nero molto luminoso che definirei bianco-e-grigi – plurale voluto – ci immerge in un 65 mm digitale che subito apre il dialogo tra presente e passato, tra lo sguardo di oggi e il vissuto di ieri. Il vissuto è quello di Cuarón, autore che costruisce una piccola cattedrale rappresentativa di un paese e della sua anima, di un Messico inizio anni settanta, scosso da terremoti e proteste studentesche annegate nel sangue, diviso tra ceto popolare e borghese, tra donne e uomini. Sono proprio le donne a rendere grande questo film di uomini che nel grande non sanno gestire un paese e che nel piccolo fanno crollare la famiglia. È grande Cleo (Yalitza Aparicio), domestica ricalcata sulla figura che tenne unita la famiglia di Cuarón, abbandonata dal pater familias e sull’orlo del disastro. È grande Sofia (Marina de Tavira), madre borghese suo malgrado costretta a puntellare un matrimonio evidentemente finito e a rimodellare un’identità familiare con un abbraccio corale elegantemente progettato dal regista di fronte ai cavalloni oceanici, controluce, massa umana che si fa scudo dagli agenti esterni e si fa casa.
Donne, uniche capaci di spalare la merda che si accumula sul vialetto, merda così ben messa in quadro da farsi sentire in tutto il suo profondo, acre odore. Cinema dei cinque sensi, quello di Cuarón, che nella piena libertà sognata da tutti gli autori di tutti le epoche può librarsi tra un reparto e l’altro, curando i dettagli e ponendosi sfide avvincenti. In questo film vediamo l’anima del suo regista, che ne ha scritto la sceneggiatura, diretto il montaggio e realizzato anche la fotografia.
È qui la sfida: in sei dei suoi otto precedenti film, il regista messicano ha avuto la fortuna di lavorare con uno dei più grandi direttori della fotografia contemporanei, quell’Emmanuel Lubezki detto “Chivo”, suo connazionale, concittadino e coetaneo che con Gravity vinse il suo primo Oscar e che in Roma ha lasciato non tutto ma solo un po’ di sé. L’autore libero, si sa, ama prendersela comoda e i 108 giorni di preparazione impiegati da Cuarón erano davvero troppo per Lubezki, tra i fuoriclasse più richiesti dal cinema mondiale, che ha dovuto abbandonare la nave e lasciare, come anticipavo, la sfida fotografica al compagno di mille avventure.
Vedrete però inquadrature bellissime, una profondità di campo ottenuta con tutti i mezzi e la luce possibili, vivrete al livello dei personaggi e ripercorrerete i loro passi. Vedrete una scena girata in un cinema e vi sembrerà, fateci caso, di essere proprio in un cinema: tutto è a fuoco e la luce proiettata sullo schermo illumina a balzelli il pubblico a seconda dell’intensità. Tutto normale, e invece no – lo spiega Cuarón stesso – perché per fare cinema ci vuole tanta luce e, per ricreare questo effetto, il regista ha puntato su un’illusione, ovvero su una falsa proiezione: nessun film è proiettato sullo schermo, ma è dallo schermo che lampade al LED proiettano luce sugli spettatori in sala, mentre il film è stato aggiunto in fase di post produzione con l’ausilio di effetti speciali.
Marooned, ovvero il film proiettato per il piacere dei personaggi, è solo un’illusione ben nascosta. Ma il regista non vince la partita grazie ai virtuosismi tecnici, lo fa con le carrellate in parallelo ai personaggi, donne appiattite sullo sfondo come a significare che quello spazio bidimensionale è l’unico in cui possono muoversi, senza via di fuga. Tanto vale quindi fare del proprio meglio per viverci e renderlo migliore. I personaggi non sfondano lo spazio, non ci vengono incontro, li osserviamo spalla contro spalla, li vediamo assistere impotenti agli agenti esterni. Se gli uomini fuggono dalle responsabilità e rovinano tutto, le donne rimangono e provano a riordinare, difendono la casa e cercano di non farsi troppo male quando ne escono.
È di fatto la casa, la famiglia, l’altra grande protagonista del film, che apre e chiude: ne vediamo prima il pavimento allagato su cui si riflette il cielo solcato da un aeroplano, poi, infine, ne vediamo le quattro mura lambire quello stesso cielo in cui ancora si muove un jet. Là fuori il mondo viaggia e chi è rimasto nella casa, con la sua famiglia, a rendere serena la vita dei suoi o altrui figli non ha più lo sguardo basso, ma ha lo sguardo fiero di chi si è preso la sua libertà e può finalmente guardare in alto.
Roma parla il lessico familiare, mitizza i dolci suoni di un’infanzia agitata, vi sembrerà il film di casa vostra, per questo il suo successo è così dirompente e per questo Netflix ha fatto una delle sue mosse più furbe aggiudicandosene la distribuzione.
Un film “di casa”, ma non “da casa”, fatevi il piacere di non guardarlo da soli sul vostro computer, vedetelo al cinema, se potete.
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P.S. se qualcuno dovesse capire per quale motivo un uomo, durante un incendio, si debba mettere a cantare di fronte alla macchina da presa, me lo facesse sapere, grazie.
E, per chi volesse leggere il film con gli occhi dei suoi protagonisti, consiglio:
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