
High Life – La fantascienza secondo Claire Denis
Nella tradizione induista il Kali Yuga è l’ultima era dell’Uomo. Un periodo di conflitti, ignoranza spirituale e decadenza morale prima dell’Apocalisse e, forse, di una nuova rinascita. Non è certo un caso che questo concetto venga citato esplicitamente proprio in High Life di Claire Denis, finalmente arrivato in sala anche in Italia. Perché è un’umanità sull’orlo del baratro quella messa in scena dalla regista francese. Un mondo condensato in un equipaggio di disperati lanciato nello spazio, sempre più lontano da qualsiasi razionalità ed empatia.
È in questa nave dei folli mascherata da epopea Sci-Fi che prende vita l’ultima fatica di una regista da sempre capace di piegare il genere alle proprie necessità. Non un film di fantascienza, dunque, non un altro Interstellar, ma una parabola morale su un’umanità abbandonata a se stessa e lontana da ogni raziocinio. Tra desideri, pulsioni e istinti incontrollabili.
Dopo i vampiri di Cannibal Love sono sempre i rapporti umani e le loro degenerazioni a scrivere le regole di un microcosmo dominato dalla lotta tra mente e istinto. Un mondo dove persino la tecnologia non è più strumento di salvezza ma un altro modo per accentuare bassezze tutte umane. È qui che hanno luogo gli esperimenti sulla fertilità dell’infanticida Juliette Binoche. A sua disposizione un gruppo di ex condannati a morte che hanno scelto di essere usati come cavie in cambio di una commutazione della pena. Cani lanciati nello spazio e sacrificati per un bene più grande.
Con lo sguardo inevitabilmente puntato al cinema di Kubrick e Tarkovskij, tra sprazzi improvvisi di violenza, onanismo esasperato (disturbante la scena della fuck box) e mancanza di qualsiasi prospettiva, in una routine in cui ogni cosa perde di senso e valore, sono prima di tutto la morale e il concetto di colpa a cadere sotto i colpi della Denis. Parole ormai insignificanti per i resti di un’umanità costretta a vivere nel vuoto. Ricordi di un mondo perduto come le immagini distanti anni luce che arrivano ancora dalla Terra o come i tabù che un padre (il Monte di un imperturbabile e bravissimo Robert Pattinson) spiega alla figlia.
Questo, almeno, prima che il tempo collassi su se stesso e quella nuova umanità cominci a muovere i suoi primi, incerti passi. Perché è proprio a Monte e a sua figlia, nata tra le stelle da un abuso e destinata a conoscere un solo uomo in tutta la sua vita, che è lasciata l’ultima parola. Un futuro ancora da scrivere, forse senza più umanità ma con la speranza, nonostante tutto, di una nuova vita.
È così che l’apologo morale di High Life, glaciale come i corpi fluttuanti che lo abitano, guarda al presente e al futuro di esistenze terminali. Contemplando un abisso misterioso come un buco nero e profetizzando la fine di qualcosa e l’inizio di qualcos’altro di completamente diverso.
Mentre tutto si distrugge per rinascere di nuovo.
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