
The Flash – Catastrophic slapstick
Sempre fuori tempo, contro il tempo. Il Barry Allen di Ezra Miller è una rovente, elettrolitica idiosincrasia temporale. Sempre in anticipo, sempre in ritardo – paradossale, per un velocista come Flash. È un décadrage vivente, recalcitrante all’inquadratura, alla possibilità di una collocazione stabile.

Le sue gesta più clamorose Barry le ha compiute in Zack Snyder’s Justice League (2021), un film che – in quanto estromesso dal caotico canone del DCEU – non esiste. Prima della Justice League di Whedon (2017), solo qualche apparizione rapsodica, fulminante: cinque secondi in Suicide Squad (dir. D. Ayer), una quarantina scarsa in Batman v Superman (dir. Z. Snyder, 2016). Rispettivamente attraverso un flashback di Captain Boomerang e un incubo profetico di Batman: in oscillazione pendolare tra un passato remoto e un futuro distopico di cui annuncia l’avvento. Una scheggia impazzita che sorvola l’immaginario, incapace di fissarvisi se non per incursioni furtive in film altrui1.

The Flash
Inizialmente previsto per il 2018, dopo un tortuoso martirologio costellato di divergenze creative, scandali e avvincenti trame criminali, il tanto agognato stand alone con protagonista Flash vede la luce solo nel 2023. Come se fosse schizzato via un lustro più avanti, imprendibile, in un impetuoso eccesso di velocità. Alla regia Andy Muschietti, sopravvissuto all’ecatombe di registi annunciati prima di lui, e a una sequela di reshoot che ha dilatato lo spazio-tempo, creando uno hiatus voraginoso che ha quasi inghiottito il progetto.
Come Barry, The Flash arriva in ritardo. Fuori tempo massimo, e nel momento peggiore. Quando il DCEU sta collassando su se stesso, prossimo al reboot che sovrascriverà l’intero universo ad opera di James Gunn e Peter Safran. Sono le ultime, stanche scintille dello “Snyderverse” a brillare sullo schermo.

Catastrofe
«This is not “trippy”, dude. This is catastrophic.»
– Una variante di Barry Allen (Ezra Miller) a una variante di Barry Allen (Ezra Miller)
The Flash è il doppio estetico del suo protagonista. Ne incarna le caratteristiche, spingendole al parossismo: il risultato è un film disfunzionale e sgangherato, impreciso; solipsisticamente delirante, logorroico. Frenetico.
Se Snyder traduceva la supervelocità in slow motion scultorei dalla velleità michelangiolesca, Muschietti persegue una prassi registica opposta. Snyder fissava il suo sguardo sul corpo del metaumano, sottolineandone la paradossale fissità; Muschietti indaga piuttosto le conseguenze della supervelocità sul territorio circostante: in termini spaziali e temporali (sul piano visuale); in termini multiversali (sul piano drammaturgico).
Sotto i piedi di Barry l’immagine si deforma, divenendo un fascio policromo di pura luminosità, di elettricità sfavillante. Il piano visuale è una pista da corsa quadrimensionale, consumata da un riattraversamento continuo che ne logora i circuiti, ne usura il tessuto. Le immagini grandangolari di Muschietti sono tanto vivaci quanto posticce, ipertrofizzate da un lavorio eccessivo. Lo sguardo scivola. La sensazione è di rivivere le trattazioni digitali più estreme a cui Rodriguez ha sottoposto l’immagine in film come Sharkboy and Lavagirl (2005), o nella saga Spy Kids. Come nella Snyder Cut, all’opera compiuta si sostituisce una sorta di sua previsualizzazione. In questa sua ambiguità risiede, a un tempo, il limite e il potenziale dell’immagine di Muschietti. Libera dal fotorealismo, essa perviene all’eversione distruttiva e giocosa del cartoon, della slapstick keatoniana. Ma al contempo si posiziona alla soglia del ridicolo.

Quanto detto per l’immagine vale, per strettissima analogia, per la narrazione: una delirante, ostinata rincorsa tra varianti attraverso le dimensioni. Tra paradossi temporali, cameo gratuiti, infinite e reboanti scene d’azione.
Buster
Buster Keaton cerca l’equilibrio, l’attimo di requie in un mondo irrimediabilmente bidimensionalizzato e meccanizzato. Barry Allen ricerca nel suo passato traumatico un attimo di felicità: la carezza di sua madre, ormai scomparsa, un suo sussurro affettuoso. Ma a circondare la puntualità dell’attimo è il massacro fagocitante di una slapstick macabra, fatta di morti, stragi, sacrifici inevitabili. Di immagini deformate e ridicole, che malcelano – dietro la loro vivacità esasperante – la stanchezza del già-morto. Il multiverso gioca con le spoglie del già-stato, incapace di pensare l’inedito – come in Spider-Man: No Way Home, l’unica via di fuga è l’oblio, il suicidio mnemonico.
The Flash sfreccia all’impazzata per recuperare il tempo perduto. Corre a ritroso, verso le sue origini; si slancia verso il futuro, fino al compimento ultimo del suo destino. Ma collassa su se stesso, di fronte all’inevitabilità della catastrofe. Non c’è più tempo.
Note
[1] Accanto ai cameo cinematografici citati, ricordiamo quelli televisivi in Arrow – Crisis On Infinite Earths: Hour Four (Stagione 8, episodio 8; 2020) e Peacemaker – It’s Cow or Never (Stagione 1, episodio 8; 2022).
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