
Shazam: Fury of the Gods – A tre passi da te
A tre passi dall’apocalisse. A separarci dal reboot che sovrascriverà l’intero DCEU ad opera degli angeli sterminatori Gunn e Safran – reboot ancora incalcolabile su una scala soft/hard – sono solo tre titoli. Shazam: Fury of the Gods; The Flash; Aquaman and the Lost Kingdom. Tre kolossal-kamikaze, animati dalla consapevolezza suicida di poter rifulgere per l’ultima volta del loro posticcio splendore. Quello stesso splendore decadente e amaro che permeava la Snyder Cut, colosso nato perduto, implementato post mortem e conscio di essere stato scomunicato dalla logica intertestuale del franchise. E perciò in-comunicante, libero. Svincolato dalle catene narrative che lo avrebbero implicato in un universo la cui consolidazione è sempre stata frettolosamente in fieri. Snyder ha imposto oppositivamente il suo ritmo. La lentezza ieratica richiesta a un requiem. L’urlo del Superman di Cavill, morente, spinto alla durata parossistica di quattro minuti.
Dopo mesi (anni) di rinvii, test screening e reshoot, ecco finalmente compiuto il primo passo. Shazam: Fury of the Gods (dir. David F. Sandberg) segue, a distanza di quattro anni, il primo Shazam (2019). Quattro anni che paiono lunghissimi. Un po’ perché il personaggio di Billy Batson/Shazam (rispettivamente Asher Angel/Zachary Levi) non ha fatto breccia nell’immaginario pop collettivo contemporaneo: non sembra tornare per un sequel, quanto piuttosto riemergere da un oblio epocale, da un silenzio prolungato. Al di là di qualsivoglia disfunzionalità estetica attribuibile all’opera-Shazam, pare essere lo stesso “Shazam” – come intellectual property, come mythos – a peccare d’icasticità. Nel look, nel concept, nei superpoteri. Laddove l’Harley Quinn di Margot Robbie e il Joker di Jared Leto sfornati dalla Suicide Squad di Ayer (2016) hanno generato alveari di cosplayers, laddove gli eroi a tinte dark snyderiani hanno quantomeno trovato un loro fandom – per quanto settario e caratterizzato da derive fondamentaliste –, alla dilogia di Sandberg pare non corrispondere alcuno spicchio dell’areogramma. L’indagine su questo peccato icastico originale potrebbero condurre in profondità. Ci si limita qui ad appurare che, nell’Olimpo moderno del cinecomic, Shazam manca di star quality. O, viste le ambizioni, di godness.
When you’re on the screen, no matter who you’re with, what you’re doing, the audience is looking at you. That’s star quality.[1]
Interconnessioni
Ma ad affliggere Shazam è soprattutto un’altra mancanza. Il vuoto e il silenzio che lo circondano derivano soprattutto dall’incapacità di sfruttare dell’eroe quella che si potrebbe chiamare “proprietà interconnettiva”. L’essere cioè implicato in una rete inter-relazionale, inter-testuale, che lo leghi ad altri personaggi e film del DCEU, a macro-trame sotterranee. A una finalità totalizzante che a quest’universo è sempre mancata. Billy/Shazam incontra un Superman decapitato. Sogna il controcampo di Wonder Woman. Anela l’inclusione in una Justice League dissoltasi insieme allo Snyderverse, per venire invece reclutato in una Justice Society che – come il “rilancio” del DCEU millantato da un urlante Dwayne Johnson – è nata abortita con Black Adam (dir. Jaume Collet-Serra, 2022). Un film, quest’ultimo, che con strapotente idiozia rigetta Shazam, ne insegue la forclusione. Negando la connessione anche quando è evidente, obbligata.

Se Peacemaker (John Cena) snobba una Justice League ormai ridotta a umbratile brandello di se stessa nel finale dell’episodio It’s Cow or Never – anticipando con ironia tragica il percorso artistico-editoriale che Gunn stesso sembra aver intrapreso -, Shazam cerca l’interconnessione, la mitopoiesi attraverso l’incontro. Trovando unicamente di fronte a sé, ostile, l’ultima senile progenie-propaggine di un mondo scomparso. Le figlie di Atlante. Un mito che non è mai stato contro uno che non è più.

In Fury of the Gods Shazam ha avuto anche l’occasione di crepare. Sarebbe stato un segno d’intelligenza, di attenzione al tempismo. Ma Gal Gadot – sfoggiando un poco credibile cosplay di Wonder Woman – non ha perso tempo per darci un esempio di solidarietà tra non-morti, resuscitandolo. Ora che tutto è perduto, nulla è perduto.
Caleidoscopiche (in)conclusioni
In questo lembo di tempo terminale del DCEU, sopra queste fluttuanti falde di luminoso e appariscente nulla sprofondanti in un crepuscolo abissale, ad appagare un occhio stanco sono soprattutto i poteri di personaggi quali Doctor Fate (Pierce Brosnan) e Anthea (Rachel Zegler).

Due prestidigitatori visuali, che invece di intervenire attivamente su un supposto profilmico, operando forza o pressione su di un qualcosa di materico, piegano l’immagine, la deformano e riconfigurano in caleidoscopici tunnel di geometrie frattali, di caroselli rotanti. Anthea fa danzare i grattacieli di Philadelphia come ballerine dirette da un ispiratissimo Busby Berkeley. Tutto questo non serve a niente. Non è che l’ultimo – il terzultimo! – baluginio luminoso di qualcosa che non è mai stato – o è già morto, questione di anni luce: «lo spento forse di stelle che non è mai stato»[2].
Note
[1] Jonathan Shields (K. Douglas) a Georgia Lorrison (L. Turner), The Bad and the Beautiful, dir. V. Minnelli, 1952.
[2] Frammento da Carmelo Bene, ‘l mal de’ fiori.
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