
Dahmer su Netflix – Ad horror del vero
Altro che capitolo chiuso. La serie thriller Dahmer – Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer è ancora un chiacchieratissimo tormento, nonostante sia uscita da diverse settimane. Persino la cacofonia del titolo rimanda a una ridondanza ossessiva dalla quale non ci si riesce a liberare. Dahmer, Dahmer, Dhamer. La prima evidenza di questa mania sono i numeri: con oltre 700 milioni di ore fruite dalla data d’uscita a oggi, guadagna una medaglia d’argento per quanto riguarda le serie in lingua inglese più viste su Netflix (Bridgerton e Stranger Things rispettivamente al terzo e al primo posto).
Il dottor Frankenstein di questa impressionante creatura cinematografica è Ryan Murphy, che cuce gli intenti di altri suoi due format antologici di successo, American Horror Story (2011) e American Crime Story (2016). Dal primo asporta anche il camaleontico attore statunitense Evan Peters, Tate Langdon nella serie (baby face con manie omicide) e lo trasforma in Jeffrey Dahmer, “Il Cannibale di Milwaukee” che sconvolse l’America di Reagan.
Un casting chirurgico, ritagliato col bisturi e volutamente dato in pasto alle sue contraddizioni: un bellissimo volto noto, sebbene nascosto dietro a grossi occhiali d’aviatore, inserito all’interno di una serie che tratta di fatti realmente accaduti è solo una thirst trap, una scelta di marketing che contribuisce a sublimare l’iconicità di Dahmer e non a condannarla? Oppure è una scelta registica che pone estrema fiducia nell’innegabile talento e nel carisma di un rinomato premio Emmy? Sebbene apparentemente agli antipodi, non solo queste assunzioni sono entrambe affermative ma addirittura in qualche modo coesistono in quel misterioso ibrido che la serie incarna. Innegabile, infatti, che una delle ragioni dell’ampio pubblico sia il fascino suscitato dall’attore protagonista: ben presto astratto dal suo ruolo e adorato al pari di un qualsiasi personaggio di fantasia, sono comparsi sui social video e art dedicate al suo Jeffrey, a quello grazioso e palestrato, non quello vero né quello di altri adattamenti meno fortunati. Il risultato è inevitabilmente un’impennata di visibilità. D’altro canto, è difficile smarcarsi dalla professionalità di chi è in grado di immedesimarsi in una persona contemporaneamente misera, squallida, apatica e magnetica, facendola risultare in qualche modo umana. E anche la bravura è motivo di meritata visibilità.

A ciò si aggiunge la nostra insita fascinazione per il disgusto, categoria estetica che increspa l’immagine piatta e le dà movimento, mutandola in una rappresentazione sensuale del male, perturbante e inopportuna. Questa morbosità è incarnata da un’inquadratura capace di condensare l’intento fotografico della miniserie: un bacio tra Dahmer e la testa mozzata di una delle sue vittime. L’ostentazione di una ricercata pornografia dell’orrore offre la cruda panoramica di una mente disturbata; allo spettatore è concesso di affondare nel macabro immaginario del serial killer, almeno come suggestione. Della psicologia di Dahmer, infatti, si sa poco di comprovato: fu ucciso da un altro prigioniero dopo soli due anni di detenzione e il suo cervello, fulcro di tutto l’interesse scientifico, venne bruciato per volontà del padre. Un’altra declinazione di questa fedele resa oggettuale è la puntualità con cui è stata allestita la scenografia. Esemplare ed eclatante la ricostruzione dell’appartamento di Dahmer, che riporta addirittura lo stesso modello di lampada da lui utilizzata.

Quest’esercizio lodevole di scrupolosità però presenta una lacuna imperdonabile. Netflix, prima della pubblicazione, non ha né consultato le famiglie delle vittime né conseguentemente ottenuto la loro autorizzazione per rilasciare una – per quanto ben riuscita – spettacolarizzazione di una tragedia, da cui per altro ricava ingenti compensi. Shirley Hughes, la madre di Tony Hughes, la cui vicenda è stata ampiamente romanticizzata nell’arco di un episodio intero (su dieci totali), ha dichiarato al The Guardian: “Non capisco come hanno potuto usare i nostri nomi e fare uscire un prodotto simile”. Opinione che si allinea alla disapprovazione generale dei parenti coinvolti. Diverso l’approccio di Conversazioni con un Killer – Il caso Dahmer di Joe Berlinguer, docu-serie di tre episodi che sfrutta immagini di repertorio e raccoglie testimonianze di giornalisti, fotografi, avvocati e amici dei ragazzi uccisi. Uscita il 7 ottobre, è di fatto il corollario della serie di Murphy ma enfatizza con fattualità quello che dovrebbe essere il focus dell’intera vicenda, gli oppressi e la loro sfera affettiva.
Al di là di quale grado di responsabilità morale debba farsi carico una produzione artistica basata su una biografia, quel che emerge, più che un interesse per il dark o il gore, è la mania per il cinema del reale, per il documentario. Dahmer – Mostro riporta in auge un fatto di cronaca e la sua intrinseca verità: Jeffrey Dahmer è accaduto. E con ciò si intende tutto il contesto all’interno di cui è inglobato: l’America degli anni ’80 e ’90, la negligenza della polizia, il razzismo, le discoteche gay, la paura dell’AIDS e soprattutto le sue vittime, altrimenti anonime anche per un fruitore medio di notiziari.
In questo senso la serie merita le sue alte visualizzazioni e il suo impressionante eco mediatico: i suoi autori hanno trovato una modalità intrigante per narrare un indelebile caso di cronaca nera, ossia applicando le regole del thriller, un genere di fiction, e gettando benzina ed effetti speciali sulla vera ossessione dell’audience: la realtà.
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