
Stranger Things 4 – La maturità sublime dell’epica seriale
È questo che tiene insieme la compagnia: il cuore. Perché senza il cuore, crolleremmo tutti.
Will Byers
Gli ultimi due episodi di Stranger Things 4, disponibili su Netflix, confermano qualcosa che forse si tende a tralasciare: questa serie è un prodotto che sfida la critica e che anche solo per le ragioni del suo successo richiede di essere approfondito. Non è solo sensato, è giusto che una critica propriamente detta metta alla prova i suoi strumenti con un racconto come questo: chiaro, lineare, dotato di una godibilità vasta e fuori dal comune, e di un’accessibilità larga che non vuol dire superficialità o trascuratezza.

Fin dalla sua prima stagione nel 2016, Stranger Things è stata fondamentale per formare e consolidare il successo globale di Netflix: in qualche modo, è diventata la serie-emblema della piattaforma, ma non solo. Si è rivelata una sorta di termometro per la serialità contemporanea: un racconto che ogni volta cercava il modo di adattarsi alle nuove esigenze del pubblico e più o meno involontariamente anche questa quarta stagione è un termine di paragone, un riferimento per lo stato attuale delle serie. Non solo per quanto riguarda le modalità di creazione dell’hype (una campagna pubblicitaria unica nella sua pervasività – meme compresi – e un trailer tra i più potenti degli ultimi anni, cesellato con una cura non comune), o la crescita vertiginosa della qualità produttiva (che ormai, come per molte altre serie, raggiunge e supera molti standard cinematografici), ma soprattutto per il worldbuilding: il racconto cresce a dismisura, allarga i confini della sua lore e del Sotto-Sopra in modi sorprendenti e credibili. Anche la scelta di una distribuzione “bipartita” della stagione (sette episodi e poi gli ultimi due, a distanza di un mese) si inserisce in pieno nel dibattito attuale sulla serialità.

L’esperienza di visione (possibilmente condivisa) è essenziale ed è parte integrante della narrazione. Le settimane di attesa per gli ultimi episodi sono state una vera e propria strategia narrativa, un meccanismo di creazione della suspense antico quanto la serialità stessa, ma qui interpretato e adattato alle esigenze dello streaming e a una marea di fan che ama lasciarsi andare a teorie e ipotesi su ciò che accadrà. Questa soluzione è una via di mezzo che conserva la possibilità del binge-watching senza costringere gli spettatori alla ritualità settimanale dei singoli episodi, ma allo stesso tempo sa mettere a frutto ogni secondo di attesa.

La quarta stagione di Stranger Things ha una struttura che riprende le dinamiche dei giochi di ruolo alla Dungeons&Dragons: il gruppo che costantemente si divide e si riunisce, la preparazione alla battaglia e i piani elaborati, i colpi di fortuna. È un racconto aperto e accogliente, una narrazione diventata generazionale grazie allo spazio che sa lasciare ai suoi personaggi anche attraverso piccoli momenti apparentemente superflui. Proprio con i minimi dettagli, i particolari che si ricollegano e il ritmo che accelera, questa stagione sa costruire l’epica come non era finora successo. Soprattutto, non ha paura di spingere sul pedale delle emozioni: non le nasconde, non le attenua per sembrare superiore o cercare il distacco, ma le lascia esplodere in purezza, senza mai perdere il controllo.

Il cuore di questa stagione è l’idea di lasciar andare i padri: il distacco inevitabilmente doloroso, la crescita e la libertà conquistata. Con questi episodi, finalmente la serie Netflix va oltre il citazionismo e la nostalgia fine a se stessa, oltre la rievocazione un po’ vuota degli anni ’80. Come i suoi protagonisti, Stranger Things è cresciuto: ha lasciato andare gli ultimi vischiosi filamenti che la legavano ancora a un passato non suo e quindi non autentico, derivativo. Ha trovato il coraggio di costruire una sua storia originale che non nasconde più, ma riconosce, accetta e riformula i suoi modelli.

Questa quarta è una stagione senza dubbio più matura, più consapevole dei suoi ritmi, delle sue debolezze e potenzialità. Ormai si è sganciata dalla sua dipendenza dagli anni ’80, che a tratti rischiava di soffocarla: la serie dà il meglio e raggiunge l’apice quando affronta problemi strettamente contemporanei, profondamente legati al pubblico attuale. Non sono inopportuni i collegamenti che molti hanno fatto tra le modalità d’azione di Vecna e quelle della depressione: tutta la vicenda di Max è trattata con grande cura e delicatezza, e culmina in un paio di scene davvero laceranti, che lasciano il segno. Se la musica non potrà salvarci, forse lo farà il ricordo degli amici: quei momenti che, nel mare della memoria, fanno luce.
L’ampia accessibilità di Stranger Things diventa allora uno strumento prezioso: la rende una metafora potente e coinvolgente, un mezzo per far risuonare temi delicati e relazioni complesse presso un pubblico estremamente variegato.

Stranger Things ha sempre raccontato, indirettamente, anche le condizioni di vita della piattaforma che la ospita. Che questa stagione sia un augurio per quello che accadrà a Netflix nel prossimo futuro? Che possa davvero rinnovarsi a fondo, mantenendo la sua anima di base ma sapendo interpretare meglio le nuove e sempre mobili esigenze del pubblico?
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