
Hollywood – Le forme nostalgiche del possibile
Disponibile su Netflix dal primo maggio, Hollywood è la nuova miniserie firmata da Ryan Murphy – ideatore di scintillanti prodotti pop da vetrina come Glee e American Horror Story – e Ian Brennan che si inserisce nell’ormai vasto panorama di prodotti che rileggono e rappresentano la storia del leggendario quartiere di Los Angeles in cui si è formata l’idea moderna di star system. Prendendo il via dall’immediato Secondo Dopoguerra, il racconto corale dei protagonisti muove in un 1948 che ritaglia spazi rappresentativi via via più distanti dal materiale storico attraverso cui procede, realizzando una delicata e scoppiettante rivoluzione della memoria possibile.
Fin dalle primissime immagini, Hollywood appare come la più tradizionale storia di chi prova a farsi un nome in quel mondo dello spettacolo ricordato oggi come la Golden Age del cinema; seguendo le vicende dei protagonisti, si respira quell’aria di familiarità tematica tale da delineare aspettative coerenti che fanno leva su quanto di quella Hollywood si sa, si ricorda o, comunque, si immagina. Eppure, immediatamente, le forme narrative che si articolano lungo i sette episodi, mettono in scena un clima straniante e sorprendente, tale da contraddire lo spettatore, attraverso strategie del racconto rischiose e, per buona misura, inedite.

La vera impertinenza rivoluzionaria che sottende l’efficacia di questa miniserie è la negazione di quelle regole narrative consolidatesi proprio in quell’epoca hollywoodiana rappresentata: episodio dopo episodio, ogni possibile conflittualità legata alla dimensione culturale in cui sono immersi i personaggi nel loro agire, invece che diventare moto del racconto, si disinnesca immediatamente, attraverso un susseguirsi di soluzioni volutamente semplici e, proprio per questo, mai scontate. Aspettative legate a pregiudizi culturali, a prassi ideologiche e a competenze contestuali vengono tradite episodio per episodio, creando una frizione sempre più stridente tra fatti e racconto, tra rappresentazione e Storia.

In questo, Hollywood si trasforma da tributo verso la Golden Age a schiaffo morale – ma mai moralista – sul volto di quelle forzature che legavano il possibile storico, proprio lì dove i racconti proiettati tracciavano sullo schermo i confini per immaginare l’impossibile. L’efficacia di questo processo muove attraverso la progressiva evoluzione e trasformazione di Peg, il film biografico da produrre intorno a cui si giocano le vite dei protagonisti: più questo cambia la sua forma – da film biografico a storia totalmente nuova, inedita – più muta la storia stessa della Hollywood che ne permette via via l’esistenza, dando forma a un racconto dalla doppia natura.
Da un lato, spogliato dai suoi contenuti, il racconto di Hollywood si dà come classicamente hollywoodiano, dall’altro, la materia di cui è riempita la sua forma lo rende qualcosa di completamente nuovo, inducendo un tipo di nostalgia per il mai accaduto che amareggia per la sua possibilità. Le forme hollywoodiane si riverberano in una fotografia brillante e luminosa, che si staglia su ambienti teatrali e volti radiosi; la recitazione è costantemente in bilico tra il naturalista e il musical, sprigionando un curioso effetto di ingenuo entusiasmo consapevolmente misurato.
Non mancano in questa miniserie squisiti riferimenti storici puntuali, con personaggi ben riconoscibili e magistralmente interpretati – Rock Hudson col volto di Jake Picking e Henry Willson portato in scena da Jim Parsons per citarne due – che concorrono nel rendere verosimili i personaggi finzionali, in una coralità narrativa misurata con la precisione dei film di Billy Wilder e di Howard Hawks.

Se prodotti contemporanei come Ave, Cesare! dei fratelli Coen e C’era una volta a… Hollywood di Tarantino hanno già posto le basi per una memoria surreale dei decenni d’oro del cinema americano, Hollywood ci ricorda quelle che oggi non possiamo che vedere come profonde ingiustizie e ingessate ipocrisie: le questioni di genere e quelle razziali si stagliano in primo piano, passando dall’invisibilità alla messa in mostra sul grande schermo; nel suo dirci con semplicità come sarebbe potuta andare, la miniserie Netflix di Ryan Murphy ci ricorda come ancora oggi dovrebbe andare, costringendo lo spettatore a interrogarsi su quei conflitti mai naturali che immobilizzano il possibile della Storia.
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[…] insieme a Ian Brennan e Brad Falchuk, con cui aveva già lavorato a Glee, Scream Queens e poi a Hollywood), si prefissa di seguire ogni stagione una tappa della sua scalata politica, partendo nella prima […]
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[…] fare qualche esempio pratico, citiamo titoli come Unorthodox, A Very English Scandal, Chernobyl, Hollywood o, ancora, Good Omens: prodotti molto diversi e variegati, accomunati dal loro svilupparsi in spazi […]
[…] agilmente i facili buonismi del color-blind casting o gli effetti di ucronica rottura dei comodi What if..?, e restituisce col suo film un punto di vista globalizzante, omnicomprensivo, ancorato a terra, […]