
American senza story – Quando l’horror diventa cliché (e politica?)
Anche in Italia l’ottava stagione di American Horror Story – Apocalypse è giunta al termine. Molti sono gli elementi rilevanti da evidenziare, elementi che tracciano nuovi confini per uno dei prodotti più noti a tema horror degli ultimi anni.
Non deve essere certamente facile mettere in scena l’Apocalisse in maniera originale viste le molteplici rappresentazioni che di essa si danno. Tuttavia, da parte degli ideatori, nonché produttori esecutivi, Ryan Murphy e Brad Falchuk sembra mancare completamente l’intento, la voglia di ritagliarsi un proprio spazio. L’Apocalisse si consuma in una decina di minuti nel primo episodio, con tinte spente e patetiche, gettando l’ignaro (e confuso) spettatore in una vicenda in medias res che tutto evoca eccetto una terrificante Apocalisse. Potrebbe configurarsi come una scelta voluta per creare dispercezione, trasportando il pubblico da uno scialbo universo sul baratro della fine a quello chiuso e claustrofobico dell’Avamposto Tre. Ciononostante la comparsa di Cordelia (Sarah Paulson), Myrtle (Frances Conroy) e Madison (Emma Roberts), le streghe di AMH – Coven, amplifica il senso di confusione che investe in pieno la narrazione, con un flashback lungo 6 episodi sui 10 totali della stagione.
Stavolta non abbiamo nuove presenze sulla scena, nuove storie, ma un cross-over tra prima (AMH – Murder House) e terza stagione (AMH – Coven) con due ripercussioni notevoli: doppio, triplo, quadruplo ruolo per alcuni attori e la fine (provvisoria?) del fattore antologico, una delle novità marcatamente più evidenti in questa stagione. Se le varie cross-references avevano abituato a percepire l’universo di AMH come unico e le varie stagioni come narrazioni singole contenute in esso, per la prima volta si infrangono le regole di un genere. Il che può o meno piacere, ma ci porta subito a chiederci quale imprevedibile piega prenderà il futuro della serie. Non solo, mantenere il cast di sempre in nuovi e vecchi ruoli può esasperare la caratterizzazione dei personaggi. Maestri come Sarah Paulson e Kathy Bates riescono ad animare la scena con la loro poliedrica presenza, con sguardi carichi di ogni possibile emozione (dall’invasamento di Miriam Mead alla crudeltà di Wilhemina Venable) e primi piani che marcano la loro presenza nello spazio scenico (per esempio, il suicidio di Cordelia Goode), ma non è da tutti: ci si stanca di vedere l’amorfo volto di Evan Peters prestato a ben quattro personaggi. Altri attori (Billie Lourd/Mallory, Leslie Grossman/Coco St. Pierre Vanderbilt, Kyle Allen/Timothy Campbell e Ash Santos/Emily) non hanno, letteralmente, il tempo di muoversi (tra flashback e flashforward lo spazio per loro è minimo) e finiscono per essere privi di spessore psicologico, quasi delle comparse. Qualche nome d’arte (Joan Collins che interpreta Evie Gallant) e la comparsa delle note Frances Conroy, Angela Bassett e Jessica Lange (la grande assente dalla quarta stagione) come guest star non risollevano una situazione traballante. Tuttavia, menzione positiva va fatta per Cody Fern e per la sua recitazione nei panni di Michael Langdon, il figlio dell’Anticristo. Il suo “ritiro spirituale” alla ricerca di un senso, del suo scopo (la fine del mondo) è forse il momento più felice di una storia che potenzialmente poteva costituirsi in modo più solido.
Non tutto è perduto. Se la componente narrativa è piatta e insipida, a movimentare la situazione convergono i giochi linguisti, le battute irriverenti, gli inside joke (i più riusciti quelli dei personaggi di Evie e Myrtle) che danno al copione quella carica per sopravvivere lungo tutta la stagione. Laddove le troppe corde della narrazione sembrano quasi soffocare la trama, le battute dei personaggi riescono a vivacizzare l’azione, con un vistoso effetto collaterale: manca la componente horror (ma abbonda alla nausea lo splatter), vinta da un gradevole humor che fa della stagione una delle più ironiche.
Non manca, specie dopo AMH – Cult, la possibilità di una lettura politica. È possibile che l’ambiente dell’Avamposto Tre, governato dalla perversa follia della Miss. Venable (simboli forse di Trump e dei risvolti della sua America anti-liberale?) sia immagine di un nostro possibile futuro quando troppo potere è nelle mani di uno solo e quando la salvezza (effimera) è un bene di lusso per i pochi che possono comprarla.
Il finale di stagione non si colloca in una posizione brillante. Troppo gratuita e banale è la possibilità di una nuova Apocalisse con un nuovo Anticristo. Certamente potrebbe leggersi come simbolo di una “fine” sempre presente, ma in maniera un po’ troppo concettualistica e banalizzante. Un accumulo che la già satura trama non può reggere.
In sostanza, AMH – Apocalypse chiede troppo a sé stessa. Vuole essere ancora più originale, ma non vi riesce; si spinge verso l’apertura a una narrazione più complessa e fallisce con la sua eccessiva fretta; possiede l’ottimo cast di sempre, ma stavolta sembra che qualcosa non funzioni. Peccato: le potenzialità non mancavano. Forse la nona stagione (in programmazione) riuscirà a rialzare il livello cui eravamo abituati dalle precedenti.
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