
Bones and All – L’eredità degli invisibili | Venezia 79
Quando il Suspiria di Guadagnino aveva esordito nelle sale italiane, l’opinione pubblica e il mondo dello spettacolo in generale erano stati preda di una scissione decisionale: se da un lato il film veniva tacciato di derivazionismo e lesa maestà, dall’altro erano stati apprezzati i processi di rinnovazione dell’archetipo streghesco e di cesura rispetto alla produzione cinematografica antecedente – l’anno prima, d’altra parte, era uscito il Chiamami col tuo nome che aveva confermato l’ascesa del giovane Timothée Chalamet; un prodotto estetico di certo poco combaciante con l’art-horror di Suspiria. Quel che era chiaro, in ogni caso, era che il regista palermitano stesse esplorando nuovi metodi espressivi, utilizzando l’espediente del remake come pellicola trasparente di protezione/distruzione, e lasciando che attraverso di esso respirasse l’accostamento di vecchi stilemi narrativi e nuove soluzioni formali. Di conseguenza non stupisce che Bones and All, adattamento del romanzo Fino all’osso di Camille DeAngelis e attualmente in Concorso a Venezia 79, fosse particolarmente atteso sia da parte del pubblico generalista che da parte degli addetti ai lavori.

Il tema non è dei più semplici da digerire, in tutti i sensi. Il cannibalismo rappresenta uno dei principali tabù del discorso socio-culturale ed evoca un immaginario scabroso, primitivo, legato a forme di rappresentazione cinematografica non lontane dal gore e dall’horror meno raffinato. Non più di qualche anno fa era già stato tentato un approccio autoriale al tema da parte dell’allora esordiente Julia Ducurnau – vincitrice della Palma d’oro di Cannes del 2021 con Titane –, che aveva riscosso un successo più che discreto: Raw aveva vinto il Premio FIPRESCI (sempre a Cannes), cui era conseguita una distribuzione cinematografica dignitosa. La sfida di Guadagnino, dunque, consiste nel relativizzare l’alone perturbante dei generi di riferimento e dare una seconda vita a un argomento capace di agire sul piano metaforico – si pensi a I cannibali di Liliana Cavani, stravolgimento feroce dell’Antigone sofoclea – quanto su quello visuale, mantenendo intatta la propria voce registica e le certezze estetiche che ne avevano già consacrato il successo.

Bones and All percorre diametralmente i territori statunitensi, dal Virginia al Minnesota e oltre ancora: si tratta di un itinerario di fuga, riconciliazione con se stessi e poi evasione che vede protagonisti due giovani eater, termine che definisce i mangiatori di carne umana – da un lato Maren (Taylor Russell), dall’altro Lee (Timothée Chalamet). L’emarginazione cui entrambi sono condannati deriva dal tradimento biologico del patto sociale della comunità americana: le trasmissioni radio e le televisioni gracchianti che compaiono di quando in quando sullo schermo raccontano un’America ancora puritana – un immaginario di praterie sconfinate, fucili, fiere di paese e capanni degli attrezzi, in cui le cittadine rappresentate appaiono come fortezze sulla collina atte all’esclusione dei navigatori della frontiera. I protagonisti sono costretti ad affrontare se stessi, la loro difficile collocazione nella realtà comunitaria e le difficoltà che la loro patologica condizione impone: un processo che, applicato a personaggi appena maggiorenni, sembra agire da specchio e raddoppiamento del tema della crescita post-adolescenziale e della ricerca del proprio posto nel mondo – processo reso ben più complicato dall’istinto primordiale che guida Maren e Lee verso la carne e il sangue, tradotto in immagini attraverso l’attenzione da parte della macchina da presa verso i corpi dei protagonisti, che sfocia a più tratti in un body horror rimaneggiato e in primi piani intensi sui volti sofferenti dei personaggi.

Guadagnino elabora uno schema narrativo che unisce fra loro generi conciliati di rado in un singolo film: al body horror e al road-trip – messi in scena secondo una logica estetica apprezzabile e riconducibile ai film precedenti del regista – si accosta una linea di narrazione che cammina in bilico fra il teen-movie e il romanzo di (de)formazione, capace di suscitare nello spettatore il ricordo di prodotti cinematografici o seriali sulla scia di The end of the fucking world. Il contrasto fra il sentimentalismo adolescenziale della trama e la crudezza di sequenze inevitabilmente sanguinarie, inoltre, apre finestre concettuali e registiche di forte interesse, che nel bene e nel male spingono chi guarda a ragionare sulla contemporaneità e sulle dinamiche moderne della fruizione visiva e della rappresentazione dei rapporti amorosi (dis)funzionali.

La sensazione è che Guadagnino abbia dato vita a un’operazione filmica capace di attrarre fra loro i poli opposti dei frequentatori della sala cinematografica – le cui reazioni, in ogni caso, saranno probabilmente diverse fra loro –, realizzando una commistione di stilemi visivi che utilizza il cannibalismo sia come pretesto e fulcro dell’azione, sia come strumento evocatorio di una riflessione più sotterranea, incentrata sulle “colpe dei padri” ereditarie e generazionali con le quali la gioventù (americana e non) è ciclicamente obbligata a mettersi in dialogo. Quelli che sembrano vincoli inscindibili, quando analizzati e compresi a dovere, diventano nuclei di conflitto che aprono le porte a nuovi modi di concepire la vita. Non c’è una sola direzione da seguire, né modelli universali e inerentemente giusti. Non resta che salire su un furgone disastrato e scoprire nuove oasi nel deserto – o nella prateria, come Maren e Lee. «Where do we go next?» «Anywhere».
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