
Chiamami col tuo nome, di Luca Guadagnino
La prima difficoltà di Chiamami col tuo nome è parlarne. Parlarne per arrivare a una conclusione. Quello che dirò è il deposito, ancora per lo più vuoto, di un dialogo. Ecco perché riporto le opinioni di altri, non soltanto le persuasive (a mio giudizio), in corsivo.
Comincio dal titolo. Il film è, finalmente, un ragionamento. Un progetto lunghissimo, anche fattualmente, perché dall’idea alla realizzazione sono passati dieci anni e altrettanti candidati registi. Luca Guadagnino era stato incaricato dai produttori americani Spears e Rosenman per una consulenza: avrebbe dovuto trovare la perfetta ambientazione per la pellicola, sulla base del romanzo Call me by your name (2007) di Andrè Aciman. Ha raggiunto la produzione e poi ha collaborato con James Ivory alla sceneggiatura. Qui un’ulteriore digressione. La sceneggiatura dell’americano, spiega lo stesso Guadagnino, era diversa: più aderente al libro (più spinto dal punto di vista erotico) e ambientata nel 1987. Ivory, viste le modifiche, si è voluto allontanare dalla produzione (suggerisco, a proposito, di ripensare al film, e a quella frattura tra una prima parte e una seconda: la prima con un andamento misurato, la seconda – con una traccia riconducibile, senza dubbio, alla penna del regista italiano – più incalzante, a tratti frettolosa). Guadagnino ha poi ottenuto l’incarico della regia, dopo il rifiuto, tra i tanti, di Gabriele Muccino. Il lungo iter d’acquisizione non può che essere il presupposto – avverato – di una forte autorialità, che difficilmente ha pari nella cinematografia italiana contemporanea.
Il film è indubbiamente, ancora, un’esperienza internazionale. Non parlo solo della produzione e della sceneggiatura, né della provenienza degli attori. I personaggi, da script, parlano inglese, italiano, cremasco, tedesco (antico tedesco e recente!), ebraico, francese… in un grande miscuglio di comprensibilità e incomprensione. Il doppiaggio, perciò, appiattisce l’impressione generale, mutila la pellicola, forse irrimediabilmente. Alessandro Giammei parla di Un’esibita poliglossia che invigorisce lo straniamento. Lo studioso di Princeton sottolinea (su «Flash Art Italia», n. 337, articolo caricato anche su Academia) quanto miracoloso sia l’incontro tra l’immagine dell’Italia di questo romanziere francesista italoamericano ebreo nato in Egitto, e quella di Guadagnino, che è nato a Palermo ma cresciuto in Etiopia.
Un altro punto sulla diatopia del film: ancora con Giammei, ritengo che l’Italia che strega l’American Film Institute e la giuria dei Golden Globes non [sia] in Italia, a dispetto degli archeologici dati di realtà che baluginano tra un idillio e l’altro – le dieci lire con le spighe, le Nazionali morbide, Radio Varsavia, Grillo sulla Rai che prende in giro Craxi. Certo perché i dati realistici sono effettivamente episodi di grande storia accolti all’interno di una storia, direi minuscola, d’amore, che non sembra voler dare loro spazio. Direi anche perché non è un’Italia a cui il cinema italiano di recente ci ha abituato e infine, soprattutto, perché è un’Italia lontana, un locus amoenus, il luogo di un esilio volontario. Il regista rifugge complessivamente difatti gli stereotipi e – noto con piacere – ha in mente un’Italia-ambiente e non un’Italia-personaggio. Lo sfondo – questo è il punto – è il protagonista.
Il protagonista, Elio (interpretato da Timothée Chalamet, subito il lizza per il miglior attore) riecheggia l’Ernesto di Umberto Saba, anche nelle potenzialità inespresse. E il protagonista, Oliver, interpretato da Armie Hammer, si configura come una sorta di autocoscienza di Elio (forse per questo Chiamami col tuo nome?).
La loro è una storia d’amore e il film non è un film sull’omosessualità. L’oltranza erotica avvertibile, per esempio, nella scena della pesca ha, non solo tormentato il regista (lo ammette in diverse interviste), ma è atto di sublimazione: questo film rifiuta disciplinatamente ogni occasione di semplice trasgressione simbolica, concentrando tutto il proprio carico di sovversione (che è sicuramente presente) sulla luminosa predica del padre di Elio (Giammei). Della predica parlerò a breve, perché prima vorrei continuare: non è un film sull’omosessualità perché nella retrodatazione (1983), nella relazione con Marzia, nell’andamento tutto sommato positivo del rapporto con Oliver e nella comprensione dei genitori vi è – forse – un programma (e una speranza): si narra l’intensità del sentimento di Elio, non necessariamente la direzionalità del sentimento. Non è un film sull’omosessualità perché la declina all’interno di un più vero spettro emotivo.
La “predica” finale del padre, per alcuni il vero sigillo del film, mi è sembrata di troppo. In primo luogo perché viene dopo un susseguirsi di falsi finali un po’ forse decontestualizzati, mi verrebbe da dire – da ingrato – come un powerpoint post vacanze, con un’ottima fotografia (il tutto concentrato negli ultimi dieci minuti di film). In secondo luogo perché sembra forzato, innaturale. Forse il regista avrebbe potuto tentare una sintesi, per valorizzare un’allusione che allontanasse il pericolo dello spiegone.
La cifra autoriale già menzionata è certo registica: l’intento sembra quello di voler immobilizzare il paesaggio (sono diverse le inquadrature immobili), renderlo immutabile (e quale altro significato si desumerebbe dal rituale annuale della famiglia di ospitare uno studente americano per l’estate? Stiamo cercando il nuovo te…) forse addirittura immergerlo nel ricordo o nell’immaginario. La sua è un’Italia bucolica, filtrata da colori caldi perfettamente legittimi per la stagione estiva. E nel frattempo la fotografia risulta a tratti sbiadita: raggiunge l’apice con la scena di un bacio, appannato quasi fosse adesso pieno inverno.
A Luca Guadagnino, con la sua personalità, gli si perdonano anche gli errori. Tra tutti, forse, l’iperletterarietà dell’ambiente: andando oltre la compresenza di lingue diverse, intendo – per una rassegna veloce – i nomi (Anchise, Marzia, Elio…); i dialoghi improntati su discipline umanistiche (fini a sé stessi, neppure caratterizzanti dell’ambiente); la scena del ritrovamento della statua; la citazione da Epicuro (un po’ buffa, che però convalida l’opinione precedente sull’immutabilità). E ancora la menzione di Antonia Pozzi; la discussione a proposito di Heiddeger… Insomma: il letterario, che avrebbe potuto emergere delicatamente da un’intertestualità sottotraccia, spesso si impone con fare maldestro.
Concludo raccogliendo il discorso: Chiamami col tuo nome è un film da vedere. Per la grande realizzazione sul piano della regia (che possono, non si dimentichi, essere discutibili, ma fanno trasparire un progetto), per la storia narrata e per gli errori. La pellicola potrebbe dirsi, di una realtà, lo specchio infedele.
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James Ivory ci ha regalato anche lo splendido Camera con vista: l’hai visto?
Purtroppo no. Anche quello, tra le altre cose, è tratto da un libro.
Esatto: nella difficile arte di trarre un film da un libro Ivory è secondo solo ad Anthony Minghella. Tra i film tratti da un libro è stupendo anche quest’altro: https://wwayne.wordpress.com/2016/08/02/un-film-che-ti-entra-dentro/. Vederlo mi ha reso una persona migliore. Lo conosci anche tu?
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