
The Banshees of Inisherin – Fra pianure e spiriti | Venezia 79
Aprile 1923. La guerra civile irlandese non risparmia corpi e proiettili: a scontrarsi sul campo sono il neo-governo nazionale e l’Irish Republican Army, sostenitori e oppositori del trattato anglo-irlandese che non più di due anni prima aveva sancito la controversa indipendenza della nazione. Non si tratta che di una delle infinite cuspidi della Storia: adottando la prospettiva braudeliana della longue durée («lunga durata») si potrebbero individuare nel presente di oggi le ultime increspature di quegli eventi lontani, rintracciando nel fratricidio originale il seme delle successive concatenazioni politico-sociali dell’Irlanda – perché la Storia non è mai soltanto una bomba che scoppia, o un soldato ammazzato nelle campagne, bensì la crasi sistematica fra le volontà dei padri (di Stato e di famiglia) e il movimento segreto delle «genti meccaniche e di piccolo affare» manzoniane, motori inconsapevoli della modernità in cui si specchiano le contraddizioni della vita. È a partire da questo assunto fondamentale che Martin McDonagh, già acclamato a Venezia74 per Three Billboards Outside Ebbing, Missouri, sviluppa la trama e le implicazioni tematiche di The Banshees of Inisherin – muovendo i primi passi dall’aprile irlandese del 1923, e servendosi della ritrovata coppia attoriale Farrell-Gleeson (già co-protagonisti in In Bruges) per regalare alla critica e al pubblico uno dei film più convincenti delle ultime giornate festivaliere.

Inisherin è un’isola appiattita dai venti e protetta da gigantesche mura di scogli, dove un modesto porticciolo diventa viatico dei pochi avventori che sfidano il mare. Fuori dal porto, muovendo verso l’entroterra, il nulla: praterie incontaminate e sentieri di staccionate per il bestiame che ospitano la vita e la morte di una comunità isolata dal mondo. La vicenda che coinvolge in prima battuta Pádraic (Colin Farrell) e Colm (Brendan Gleeson) – ma che assorbe al suo interno l’interezza degli abitanti insulari – ha luogo in queste waste lands irlandesi, dove l’unica alternativa alle casupole in pietra e legno è un pub che serve sherry e birra scura. Il pub è la terra franca dove s’incontrano i compaesani in qualsiasi orario della giornata, per cercare una tregua dal cielo plumbeo e dall’aria salata: cosa può succedere, però, quando all’improvviso non si ha più un vero amico col quale condividere il non-tempo di Inisherin? Qual è il confine che separa l’amicizia dalla dipendenza materiale e dal narcisismo?

McDonagh inscena una tragicommedia scritta alla perfezione, alternando con sapienza il registro comico e ironico a quello più drammatico – com’era già avvenuto, d’altra parte, per In Bruges. La scorrevolezza semantica, visuale e sintattica di cui The Banshees of Inisherin è intessuto – riscontrabile nel meccanismo comico della “ripetizione con variazione” di veri e propri leitmotiv della parola, così come nei costanti rimandi fra inquadrature interne al film molto simili fra loro a causa della staticità dell’ambientazione – riesce nell’intento di catturare lo spettatore sin dai primi minuti: in questo senso risulta fondamentale l’iper-caratterizzazione dei personaggi secondari, fra cui risaltano di certo Dominic (Barry Keoghan; lo “scemo” del villaggio) e Siobhán (Kerry Condon; sorella intellettuale del più semplice Pádraic), ma che coinvolge quasi miracolosamente ogni carattere messo in scena.
The Banshees of Inisherin avrebbe dovuto costituire, diversi anni fa, il terzo capitolo di una trilogia teatrale progettata dal regista irlandese – andando a completare il dittico (effettivamente realizzato) composto da The Cripple of Inisheer e The Lieutenant of Inishmore. Nel film permane una vaga traccia di quest’impostazione legata a un medium diverso dal cinema, per quanto mitigata dalla proiezione sullo schermo; gli scambi dialettici e la caratterizzazione dei personaggi ne sono testimonianza. La precisione maniacale nella definizione dei personaggi ha inoltre un corrispettivo tematico: il film riesce a avvicinare fra loro e far coesistere una grande quantità di tematiche, esplicite o meno. L’arco narrativo principale, poggiato sulle spalle di Pádraic e Colm, diventa un pretesto paradossale e iperbolico per raccontare il sistema-mondo dell’isola – che viene metaforicamente traslato in una raffigurazione dei rapporti interpersonali del genere umano.

La guerra come tragedia, la guerra come commedia; l’approssimarsi della morte e il valore destabilizzante della violenza (auto)inflitta; l’ignoranza maligna e l’ignoranza contadina; la cultura come strumento di evasione e di prigionia; la materia indefinibile degli equilibri familiari e la religione – in una parola, Inisherin: un’isola dove i sogni non si avverano e dove le banshee, spiriti femminili piangenti della tradizione irlandese, non urlano più le profezie leggendarie.
L’uomo si pietrifica sotto lo schema stagionale della routine, il tempo si ferma e la guerra è un tonfo lontano privo di qualsiasi ideologia: ciò che diventa importante e necessario alla sopravvivenza, dunque, è la sincera compagnia di un amico o di una bestia sensibile, sperando che la morte non bussi alla porta – e che la statua di ceramica della Madonna, posta al bivio delle strade di campagna, mantenga il proprio valore salvifico. McDonagh regala così a Venezia 79 un compendio di lacrime e risate, lasciandoci un film che tocca vette cinematografiche di evidente spessore.
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