
Teatro Akropolis a Venezia 79 – Intervista sul film “Carlo Sini”
Con la prima edizione del premio Cinema&Arts, competizione parallela che vede protagonisti i film in concorso alla 79^ Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, è stato scelto il film Carlo Sini realizzato da Teatro Akropolis per introdurre plasticamente il tema del rapporto tra il cinema e il mondo delle arti. Noi abbiamo incontrato i direttori artistici di Teatro Akropolis – che ha sede a Genova – David Beronio e Clemente Tafuri, curatori di tutte le iniziative da loro promosse, del festival Testimonianze ricerca azioni, di AkropolisLibri (che pubblica prevalentemente testi di estetica) e registi dei prodotti cinematografici oltre che degli spettacoli. L’incontro, che è partito come una tradizionale intervista sul film Carlo Sini e sul rapporto di Akropolis con il cinema, si è presto trasformato in una ricca conversazione sul teatro, sul fare filosofia, sull’impossibilità della rappresentazione e sul ruolo che festival importanti come Venezia hanno in tutto ciò. Abbiamo deciso di mantenere l’intervista nella sua interezza, quindi buona lettura. L’appuntamento con Teatro Akropolis è l’8 settembre per il premio Cinema&Arts e per la proiezione di Carlo Sini nell’hotel Excelsior del lido di Venezia.
Nicolò Villani: Quest’intervista è incentrata sul vostro lavoro cinematografico che ormai vede già quattro titoli tra realizzati e in lavorazione (nella collana intitolata La parte maledetta. Viaggio ai confini del teatro) e in particolare perché uno dei vostri lavori sarà presentato in un concorso parallelo alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Ecco, ve lo aspettavate?
Clemente Tafuri: No, non ce lo aspettavamo per niente. Ѐ arrivata questa notizia…
David Beronio: … come un fulmine a ciel sereno. Questa è la prima edizione del premio Cinema & Arts che è un premio parallelo della Mostra del Cinema riferito ai film che parlano di arte, quindi è un discorso meta-artistico nelle intenzioni dell’ideatore del premio, che è Alessio Nardin (anche direttore della giuria); in occasione della premiazione, che vedrà coinvolti i film in concorso, Nardin ha avuto l’idea di presentare un film completamente indipendente per dare testimonianza di un panorama che a Venezia ovviamente non ha spazio, quello del cinema indipendente. Collabora a questo premio anche Oliviero Ponte Di Pino, che è un po’ il trait d’union tra il mondo cinematografico e il mondo teatrale – lui conosce il nostro lavoro ormai da tanti anni – e che ha suggerito a Nardin di guardare i nostri film, e così è andata.
NV: La cosa notevolissima è che diventate sostanzialmente il manifesto di questo premio aprendo col vostro film. Il film selezionato è un “film ritratto” – posso definirlo in questo modo? – dedicato a Carlo Sini e in qualche modo a una certa idea di fare discorso filosofico, di fare filosofia, ma fare nel senso pratico del termine; ecco, come l’avete approcciato nel momento in cui avete scelto la figura di Sini e avete scelto di realizzare un film sulla sua figura e sulla sua voce? Come avere ideato il prodotto, l’oggetto?
CT: Ѐ un po’ un modo di lavorare che ci siamo inventati durante i passi che abbiamo attraversato ne La Parte Maledetta: i film non sono dei veri e propri documentari; al loro interno si sviluppa anche un cammino parallelo, più artistico e poetico che è più nostro e che va ad accompagnare e a seguire quello che nel film si sviluppa. Questo cammino parallelo si compone durante la lavorazione del film, non prima: noi abbiamo delle suggestioni, ovviamente, delle idee e dei temi che ci interessa affrontare film dopo film, ma il rapporto con le immagini con il rapporto col cinema e tutto il resto si sviluppa e si approfondisce durante la lavorazione, non quella di scrittura del film ma la lavorazione con le riprese, gli incontri con le persone che decidiamo essere protagonisti dei nostri film, ecc. In sostanza, non c’è una sceneggiatura: è questo il tema di fondo; la sceneggiatura si costruisce mano a mano che le persone che incontriamo elaborano la loro riflessione, e questa cosa è accaduta anche con Carlo che in questo dialogo che abbiamo avuto con lui ha fatto un grande affresco del Pensiero Occidentale che in qualche modo ci conduce all’origine della nostra cultura, all’origine del Teatro stesso; dalle sue suggestioni e dalle riflessioni che ci ha regalato in questi incontri abbiamo ampliato quelle che erano le nostre idee originarie e le abbiamo ristrutturate sulla sua analisi delle questioni che insieme affrontavamo.
DB: Dici bene quando parli della pratica filosofica di Sini, perché il nostro incontro con lui è un incontro che risale a molti anni fa ed è avvenuto nell’ambito di Mechrí, che è un laboratorio di filosofia, sostanzialmente, ed è anche un luogo a Milano – lo abbiamo frequentato, siamo stati invitati a fare degli interventi – e nasce dall’idea che la filosofia non sia una pratica legata esclusivamente alla scrittura e quindi alla pagina del libro, ma che sia qualcosa che possa essere vissuta, che possa essere praticata in una forma laboratoriale, e quindi questo film è anche l’incontro tra due pratiche: la pratica filosofica di Sini intesa proprio come una sorta di chiamata ad un confronto, chiamata ad un esercizio del pensiero – quindi non è un appello ad ascoltare, non è un appello ad apprendere una lezione piuttosto che una serie di nozioni, ma è proprio l’apertura di un discorso, all’interno del quale entra chi è interpellato a dialogare – e allo stesso modo noi abbiamo messo sul tavolo la ripresa come pratica.

NV: Questo è veramente il fulcro del potenziale di questo ritratto. Qua si aprono veramente tantissime strade di dialogo e secondo me la più interessante è il gioco che avete creato tra la selezione del discorso di Sini e la scelta delle immagini. Nel momento in cui lui parla dell’impossibilità della filosofia scritta mostrate i suoi libri: questo è veramente efficace. E la cosa curiosa è che, nonostante ci sia questo incontro paradossale tra l’immagine e la parola, non c’è un gioco ironico dietro, ma c’è proprio l’accostamento degli opposti, cosa che Sini dice all’inizio del film. Lo trovo molto efficace.
CT: La parola e la sua contraddizione con l’irriducibilità del pensiero è comunque l’unica possibilità che noi abbiamo anche per dare ragione di questo conflitto, di questa contraddizione. Quindi è chiaro: il libro sembra un oggetto che nel film può apparire come già avvinto da questa riflessione da cui si parte, ma è anche l’unico approdo possibile; è lì che si anima il discorso.
NV: Allo stesso tempo i punti che Sini tratta riguardo la scena teatrale, intorno all’ultimo segmento del film in cui definisce il teatro come rito, come ritmo, come memoria, messa in scena, ripetizione, novità… Sembra che si crei in un certo modo lo stesso parallelismo che c’è tra la filosofia fatta e la filosofia scritta e la messa in scena e il cinema; cinema che diventa in qualche modo un definitivo della messa in scena. Manca il cinema nel discorso di Sini, eppure è un discorso che viene ripreso, che viene costruito attraverso l’immagine cinematografica: come pensate il rapporto tra la scena teatrale e il potenziale cinematografico con tutti i limiti che può avere?
DB: Eh, certo, questa è la questione, per noi; questa è la domanda. Ѐ chiaro che il punto di partenza è l’immagine, perché anche di fronte al lavoro per la scena noi da anni abbiamo deciso di lavorare sull’immagine: le ultime nostre due produzioni non prevedono l’uso della parola; non perché sia esclusa da una motivazione estetica principale, ma perché si tratta di due capitoli di un ciclo che sostanzialmente si rivolge all’immagine. l’immagine nel caso del teatro è però quella che affiora, che emerge; da dove emerge quest’immagine? Dal buio, molto semplicemente, dal buio che precede la scena, ma comunque emerge dal movimento. L’idea di immagine, che è qualcosa di fissato o comunque qualcosa di formato – che ha una forma – viene immediatamente e strutturalmente contraddetta dal movimento: il movimento lo puoi scomporre se vuoi in una teoria, in una conseguenza di forme consecutive, ma non è quello, quella non è la forma, quello non è il movimento. Questo interrogativo che ci pone l’immagine: l’immagine del corpo sostanzialmente e innanzitutto, il corpo sulla scena che diventa immagine, ma nel movimento nega la sua natura di immagine, diventa forma, ma nel trascorrere del tempo nega la persistenza della forma. Cosa succede a questo enigma dell’immagine del corpo visto dal vivo quando io lo traspongo sulla pellicola? Beh, si rinnova; questo mistero si rinnova, perché comunque io ho una diacronicità, all’interno della quale ciò che accade scivola in un passato – come dice anche Sini, ma non nel film [ridono] perché questa cosa non è stata salvata -; è questo tema che si rinnova su due mezzi differenti che sono però in strettissimo dialogo. E ovviamente entra in gioco anche la parola, che diventa quasi preponderante rispetto all’immagine, o comunque crea un altro polo con una tensione fortissima tra la parola-suono, la parola-significato e l’immagine, l’immagine-forma.

NV: Nel film è palpabile quest’idea: all’inizio sentiamo la parola, ma siamo di fronte a quasi un minuto e quindici di buio; sentiamo la parola, ma non vediamo ancora. Poi prima che ci sia la parola pronunciata – con quindi un volto che la emette – passa ancora tempo, quasi due minuti. Ѐ interessantissimo perché siamo già immersi nel discorso, ma non siamo ancora presenti al suo formarsi. E allo stesso tempo, all’incirca al quattordicesimo minuto, assistiamo a Sini che parla, ma non sentiamo alcuna parola: c’è un montato di found footage di suoi interventi molto spesso televisivi, ma anche di convegni, in cui si vede la sua gioia nel parlare, nel fare discorso filosofico, ma non lo sentiamo, semplicemente assistiamo e sentiamo piuttosto lui che suona il pianoforte. Ecco, c’è questo scarto tra la parola pronunciata e la parola che sentiamo, tra la parola registrata e la parola nel suo farsi; diventa un altro percorso con cui leggere la vostra idea del fare filosofico e del fare scena, del fare filosofia attraverso la scena?
CT: Chiaramente il film ha un filo rosso che è il racconto di Sini. Sini ci accompagna e bisogna stare con lui momento dopo momento perché è chiaro che i punti limite a cui lui porta bisogna seguirli con molta attenzione; ovviamente nel film il cammino filosofico è stato rispettato il più possibile sui temi che si è deciso di mettere a fuoco. Dall’altra parte si apprestava il problema che stai dicendo tu: come fare a mantenere questo cammino rigoroso, preciso, filosoficamente molto appuntato e così via… come fare a mantenerlo in dialogo con un cammino di immagini che non fossero in qualche modo sempre e comunque lui che parla, e quindi la visione frontale di una lezione, di una conferenza, ecc. E lì abbiamo cercato di contrappuntare questo cammino con quelli che sono stati poi i nostri interventi dal punto di vista del montaggio, dal punto di vista di ripresa o di immagini poetiche intorno a questa cosa. Si crea questa assenza: Sini c’è, ma non c’è; lui parla e ci sono le immagini che non rispondono a questo momento, a questo tempo. Insomma, c’è quest’idea di contrappuntare quello che è il rigore di un cammino di pensiero con cose non che lo negano, ma è come se lo sgambettassero in qualche modo.
DB: In questa parte dei video a cui fai riferimento, noi ci siamo trovati a fare i conti con una figura, quella di Sini, che ha una grandissima presenza sul web; ci sono tantissime conferenze di Sini, decine di conferenze lunghe un’ora o un’ora e mezza, dove c’è lui che parla con una ripresa fissa fatta funzionale a documentare quello che lui dice, e nonostante sia una situazione teoricamente insostenibile – guardare uno ripreso male che guarda per un’ora e mezza – tu guardi questi video e non riesci a staccarti, perché lui ha questo magnetismo e ha questo eloquio meraviglioso, veramente un sogno, che ti attrae molto. Quindi noi, oltre gli incontri a casa di Carlo per le riprese, con cui abbiamo cenato, con cui siamo stati insieme molte volte anche negli anni precedenti, facendo il film abbiamo dovuto fare i conti anche con il Carlo Sini delle lezioni filmate, che sono ampiamente disponibili e ampiamente utilizzate e citate da chi si occupa di filosofia; quindi era un altro elemento, quindi c’era già una dimensione video di Carlo Sini che racconta la sua filosofia con cui era necessario confrontarsi. Questo distacco, questa separazione che abbiamo cercato di costruire a tratti tra il volto parlante e il discorso come suono, come fonema e come significato affidato al codice della parola, questo distacco è stato uno degli elementi su cui abbiamo riflettuto, fino ad arrivare nel finale ad un’altra voce…
NV: Ecco, quella sarebbe stata una domanda abbastanza importante: la scelta della citazione così estesa, in lingua originale, di Heidegger, diciamo come “quarta di copertina” di questo ritratto, come risposta, dialogo… Non so, è curiosa questa scelta.
CT: Heidegger in quel testo da cui noi abbiamo attinto pone un problema legato all’opera d’arte – lui parla della scultura, ma è un discorso che può essere esteso ad altro – e in qualche modo riprende il tema di Sini, perché parla della possibilità dell’arte di assumere una forma in funzione degli spazi sacri che circondano i luoghi dove l’arte si manifesta. Questa è una cosa che Sini dice nel film, ovviamente con un altro modo, con altri riferimenti, ma quando Sini parla delle voci lontane che dovremmo riuscire ad ascoltare per riuscire a dare poi alla nostra esperienza un senso a quello che facciamo, in realtà riprende questo tema heideggeriano dello spazio profano e dello spazio sacro, ed è una cosa che se la immaginiamo riferita alla scena e al teatro è un’immagine perfetta; tutto il Novecento teatrale ha fatto i conti con questa immagine. Tieni presente che questa cosa nasce durante la lavorazione del film proprio da una conversazione con Carlo nel suo salotto: lui è diplomato al conservatorio, è un musicista ed è anche un melomane, conosce la musica in maniera straordinaria, ha una collezione di dischi meravigliosa… Spulciando nella sua collezione di dischi è venuta fuori la registrazione della conferenza di Heidegger, infatti nel film a un certo punto si vede Sini che maneggia questo vinile con Heidegger in copertina: quello è il disco da cui è stato preso quel tratto di conversazione.

NV: Ѐ un contrasto molto forte perché pensare all’atteggiamento e alla persona Carlo Sini contrapposto in qualche modo in questa coda all’atteggiamento e alla persona molto ingombrante Heidegger è veramente un effetto… inaspettato, diciamo; c’è questo collegamento tematico precisissimo, dopotutto c’è chi ha detto che il teatro è la scultura in movimento, quindi le due cose si legano perfettamente e in qualche modo il discorso di Sini ha un movimento, quello di Heidegger è molto rigido, molto “scultoreo” in questo senso, quindi c’è una sorta di semisimbolismo anche espressivo.
CT: Si, tieni presente che Sini, quando con Florinda Cambria fonda Mechrí ormai diversi anni fa, inizia un ciclo di lezioni nella sede di questa associazione le prime delle quali sono su Nietzsche, su Eraclito e su Heidegger. Per Sini Heidegger è un punto di riferimento inespugnabile e l’ha sempre detto: un uomo spregevole, un uomo di cui ben conosciamo le vicende su tutti i fronti, ma sicuramente una delle personalità filosofiche con cui bisogna fare i conti.
NV: Invece la questione di Eraclito: avete messo in forma molto spesso questa compresenza degli opposti, che non è dialettica e non dev’esserlo assolutamente, non è nemmeno contrapposizione, ma è proprio compresenza. Nel vostro teatro si vede: è proprio palpabile; ho assistito alla vostra produzione Pragma e lì il discorso del buio è densissimo, il movimento che viene fuori dal buio, che nasce dal buio, che prende forma e diventa materia è proprio evidente. Il cinema sembra però escludere per antonomasia la possibilità del pensiero di Eraclito: abbiamo un punto di vista che è quello, un punto di vista sulla scena che è definito, anche la contrapposizione di opposti deve rispondere quanto meno all’effetto Kulešov, quindi ci dev’essere poi un effetto di senso che li metta insieme. Come vi interfacciate con questa “difficoltà” del mezzo cinematografico?
CT: Ti ripeto, il film su Carlo ci ha posto delle condizioni, ecco, che non aveva senso eludere o comunque risolvere in maniera rischiosa per il rigore del cammino filosofico che c’è nel film, cosa che invece, ad esempio, nel film a cui stiamo lavorando adesso ha tutta un’altra piega. Forse penso che dal punto di vista della possibilità del senso attraverso gli opposti il film che stiamo facendo adesso è più eracliteo.
DB: Io direi che sì, è così, c’è un processo in questo senso di giustapposizione, ti direi. Tu dicevi prima: questo Heidegger che compare alla fine è una quarta di copertina o forse è una voce che crea un dialogo con quello che c’è stato prima; in realtà io direi nessuno dei due. Un po’ come in tutto il film c’è comunque una natura aorgica – se vogliamo usare un termine di Hölderlin – che viene giustapposta all’immagine anche nitida di Carlo Sini, allo stesso modo il discorso cristallino, per quanto complesso, di Carlo viene giustapposto al discorso di Heidegger, che è complicato ed è in una lingua che non si capisce, quindi, come fa Eraclito, è il mettere accanto queste cose che sono apparentemente opposte se guardate da un punto di vista della rappresentazione e dell’esperienza, che però rivelano in questo essere messe una accanto all’altra, una sorta di fondo che le riguarda allo stesso modo, che non è una sorta di sintesi o di unione dialettica hegeliana, ma è invece proprio questo mantenere aperta una differenza che diventa anche stridore, contrapposizione, in un’opera di giustapposizione, cioè di porre le cose una accanto all’altra nella loro semplicità senza sforzarsi di creare eccessivamente un legame estetico, ma in una coerenza estetica che deve esserci se no viene fuori un pasticcio; lasciarle permanere per quello che sono e per come si pongono, per come ci si pongono nel loro essere.
NV: Mi viene in mente il termine che usa François Jullien in questo senso che è “scarto”, l’incontro attraverso lo scarto che deve rimanere aperto quel tanto da poter rinnovarsi, ma non quel troppo da creare sostanzialmente disarmonia e quindi allontanare e sfilacciare. Invece vorrei tornare un momento a una suggestione che Clemente ha tirato fuori prima: quest’importanza dello spazio sacro con cui il teatro del Novecento ha dovuto fare i conti; è interessante nel discorso che si parli del teatro dal Novecento: c’è come uno spartiacque in tantissime discipline tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento che vede ad esempio la nascita del cinema, la nascita del fumetto, la nascita di un certo tipo di teatro – quello di regia che si confronta con certi limiti e certe scelte che la scena comporta – e allo stesso tempo dal punto di vista filosofico quella che è la svolta linguistica: da un certo momento in poi la filosofia non può che interrogarsi su come pronuncia sé stessa, su come si pronuncia il mondo, su come è interpretato, è un mondo linguistico o non linguistico, è immagine o non è immagine… Come vedete questo parallelismo? Lo accogliete? Ѐ una contingenza casuale oppure siamo ancora lì dentro e ci stiamo ancora navigando?
CT: Questa crisi nasce nell’Ottocento, come dicevi tu, e se proprio si vuole trovare per amor della sintesi un nome, un’opera o un qualche cosa che in qualche maniera criticizzi senza appello il cammino dell’arte e del fare filosofico, questo è Nietzsche, da La Nascita della Tragedia e Lo Spirito della Musica in particolare, quel filosofo con cui tutti fanno i conti, o rinnegandolo, o rinnovandolo o cercando di capire… Quindi è da lì che forse bisogna partire per capire poi tutto il cammino del Novecento, la crisi definitiva della rappresentazione in cui siamo ancora e che è irreversibile; non è un cammino che ci porta a delle soluzioni, ci porta a frequentare questa crisi e a frequentarla con sempre maggiore consapevolezza per chi ovviamente accetta questa sfida, perché poi siamo circondati in realtà da un teatro che è ancora il teatro dell’Ottocento.
NV: E c’è quasi una bulimia di rappresentazione.
CT: C’è un’idiota bulimia perché produce il nulla, sostanzialmente. C’è un ritorno – non se ne è mai usciti sostanzialmente – a fare teatro con ancora le logiche ottocentesche; si preparano gli attori ad andare in scena come si preparavano nel 1870. Quel teatro che Baudelaire diceva essere una cosa inutile, «non ci vado a vedere quel teatro»…
DB: «… La cosa più interessante è il lampadario».
CT: Perché ovviamente i grandi artisti hanno sempre sofferto questo approccio alla rappresentazione, all’arte, bigotto, non saprei come altro definirlo. Quindi tutto questo nasce in quel momento; il cinema dei primissimi decenni è stato usato proprio per andare ad affrontare questo grande tema, perché cadeva nel cammino delle avanguardie, perché c’era questo problema che era sentito, era vissuto e quindi il cinema che nasceva era proprio una risposta al grande problema della rappresentazione; come è successo con la musica, poi è successo con il teatro ovviamente, con la pittura. Il teatro del Novecento si è interrogato su questo, ma non tutto il teatro del Novecento, perché poi il teatro ha continuato ad essere quell’esperienza piccolo borghese che vediamo anche adesso: si fa Pirandello, si fa questo, si fa quell’altro con quei criteri ormai perduti che però sopravvivono.
DB: Il Novecento è stato, nell’arte ma anche nel pensiero, un grande lavoro di tematizzazione delle crisi che nell’Ottocento sono emerse. Queste crisi sono state tematizzate, sono state sistematizzate, sono state fatte esplodere e oggi assistiamo a un clamoroso rifiuto del Novecento. Tutte le ultime propaggini e le ultime tendenze delle arti nelle varie discipline sono una negazione delle tematiche del Novecento. Nel teatro questa cosa è veramente clamorosa perché le esperienze ancora fondamentali della seconda parte del Novecento – quindi andiamo in tempi veramente recenti, penso a Grotowski, al Living Theatre o a chi vuoi tu – vengono trattate come una sorta di ciarpane residuale da sbaraccare per tornare allegramente a quello che si faceva prima.
NV: Se non alle volte reintegrate tramite l’effetto nostalgico. Nella musica lo vedo costantemente: vedere gruppi di sessantenni che suonano i Beatles è anestetizzare quella rivoluzione del costume che erano gli anni ’60 e la stessa cosa vale in ambito teatrale.
DB: Assolutamente. Noi adesso viviamo in questa temperie e quindi bisogna anche fare i conti con questo aspetto.

NV: Immagino che voi frequentiate anche il panorama cinematografico. Secondo voi dove sta ancora un po’ di sana evoluzione fuori non dalle logiche industriali – lo sappiamo, il cinema nasce industria e continua ad essere industria – però fuori dalle logiche in qualche modo “anestetiche”? Si può trovare?
CT: Io di fronte a questa domanda, che è una domanda legittima, sono sempre perplesso, perché credo che nell’arte in generale – nel cinema senz’altro -, al di là di casi atipici che andrebbero presi nella loro complessità e studiati dall’inizio alla fine, molte cose a volte sono episodiche nella vita di un artista: ci sono registi molto bravi che di veramente significativo hanno fatto uno o due film, per mille motivi: magari non hanno realizzato cose che a me interessano, ma per loro sono stati significativi, quindi nella loro vita hanno fatto uno o due film che magari vanno messi sotto al vetrino e studiati con molta attenzione. Così come spesso capita nella letteratura, nella pittura. Dire un nome è sempre un po’ rischioso. Noi in questi ultimi anni abbiamo cercato di capire che cosa succede nel cosiddetto “cinema indipendente”, chiamiamolo così, e anche quella è una galassia molto complessa, fatta di cose belle e di cose brutte, di gente improvvisata… C’è di tutto, come ovunque. Forse lì è possibile intrattenere a volte dei dialoghi costruttivi, ma forse… Prima abbiamo parlato di tante cose importanti: se non si parla di quelle cose lì, parlare del resto diventa acqua fresca; bisogna partire da quella roba di cui abbiamo parlato con te poco fa. Se questi sono i presupposti di un cammino di ricerca e di studio, allora andiamo a rileggere le cose senza rinunciare alla complessità, che è fondamentale; se noi stiamo in questi problemi, ci stiamo perché sono ancora urgenti, nessuno li ha risolti e non si possono risolvere, allora… Però è difficile, è una sfida molto complessa dire che la mia ricerca è dentro questo grande cammino che il pensiero del nostro tempo attraversa, che l’arte del Novecento ha in qualche modo messo in luce: come diceva David, il Novecento è il secolo che ha dato delle forme chiare e nette a grandi temi del secolo precedente, ma ancora prima; se noi abbiamo consapevolezza di tutto questo e lavoriamo dentro questo allora ben vengano; se queste cose non ci sono allora diventa veramente sterile fare una riflessione: a che serve? Di cosa parliamo? Stiamo parlando di come fare il film, lo spettacolo, l’attore, adesso? Così? Non serve a niente.
DB: Pensa a degli autori come possono essere Bachtin o Benjamin: dove hanno buttato il loro sguardo per decifrare le questioni più urgenti del presente? L’hanno buttato indietro, spesso in situazioni marginali, a lato del flusso della Storia della letteratura.
CT: Lo stesso Nietzsche, per parlare del suo tempo e di Wagner, pesca nella Grecia Arcaica; neanche la Grecia Attica, ma quella più sperduta e sconosciuta. Se invece vogliamo chiacchierare del presente, magari è interessante per una mezza serata, però poi…
NV: Però qui allora si fa presente l’elefante nella stanza, che è il festival cinematografico per antonomasia, ovvero Venezia. Il festival per gli addetti ai lavori e non solo è Venezia, e a Venezia arriva un po’ qualunque cosa: arrivano i Blockbuster hollywoodiani, arriva il cinema che si dice indipendente, arrivano i cantanti che si improvvisano attori, arrivano i politici a fare la passerella… Diventa difficile a quel punto orientarsi e trovare la propria dimensione. Come vi interfacciate con il festival?
CT: Ѐ chiaro che i festival – Venezia piuttosto che gli altri, come gli stessi festival di teatro – sono delle vetrine, spesso sono dei luoghi dove si presentano le cose che ci sono, ovviamente magari solo una parte perché altre è complicato portarle oppure interessano meno, ma non è lì che possiamo andare a intrattenere queste discussioni, è impensabile; questo fa parte di un cammino personale che tu frequenti ed eserciti giorno dopo giorno con il tuo lavoro, con i tuoi incontri, con le esperienze che uno fa… Chiaro, poi ci sono questi eventi più o meno, come dici tu, l’elefante nella stanza, ma non credo siano quelli i luoghi del confronto, della ricerca, ma non penso neanche sia nelle loro ambizioni. Sono i luoghi in cui si presenta uno stato dell’arte, sempre ovviamente più o meno parziale a seconda di chi dirige, a seconda degli interessi, ecc., però non è lì che si vanno poi a mettere a fuoco determinate faccende; questa è una cosa che riguarda ogni artista nel suo cammino. Noi qui a Teatro Akropolis abbiamo sempre avuto un approccio più curatoriale che organizzativo, quindi abbiamo sempre messo a fuoco innanzitutto dei temi e cercato gli artisti in funzione di quei temi, però siamo anche un festival che per nostra scelta permette questo tipo di libertà, che ti costa, te la devi guadagnare, te la devi sudare…
DB: Il discorso che faceva prima Clemente sulla complessità: affrontare la complessità crea un equivoco che dev’essere invece sfatato e che è quello che noi non abbiamo nessuna ambizione ad essere oscuri, cioè la complessità non è l’oscurità. Quindi anche un’occasione – per tornare alla tua domanda – come quella del festival non viene affrontata come una sorta di contrapposizione di una poetica oscura a fronte invece di un panorama molto limpido e molto chiaro. In realtà noi ambiamo comunque a portare in tutti i nostri lavori – sia quello cinematografico che quello teatrale – un piano di incontro, un piano di fruizione, che è quello che ci muove poi ad offrire il nostro lavoro al pubblico, se no ci chiuderemmo in una stanza a fare delle pensate e sarebbe finita lì. Diciamo che il festival può essere un’occasione per creare un piano di incontro sulla parte che si offre a chi guarda.

NV: Infatti il film-ritratto di Sini è tutt’altro che oscuro: ha il grosso pregio invece di lasciare andare l’esperienza dello spettatore senza nessun ostacolo, invece di solito è quello che si accusa a un certo tipo di ricerca estetica e discorsiva. Io sono molto contento che a un festival come Venezia possa arrivare anche questo tipo di discorsività e con essa la dimostrazione che si può fare così, senza essere maledetti dall’idea che non ci capisca nessuno – mi ci metto anche come teorico, perché anche nell’esperienza critica e accademica si è spesso accusati di voler dire con parole complicate cose molto semplici, invece no, non è così.
CT: Poi che la complessità abbia bisogno di più tempo, di più luoghi… Quello che stiamo facendo con il cinema è un po’ una parte di un cammino che ha altri momenti altrettanto importanti che compongono questo mosaico. Quindi il cinema diventa un momento in cui certe cose possono essere in un certo modo, mentre invece da altre parti queste cose non vengono approfondite o magari non dette. C’è questo aspetto che riguarda un po’ il nostro cammino; in particolare il film di Sini è un affresco: una volta chiacchierando lui ha detto «voi non avete fatto un film su di me, voi avete fatto un film su di voi» e ovviamente lui ha capito benissimo questa cosa e lo diceva con stima e con affetto. Questa cosa è poi proprio quello che si dice dentro il film, cioè questo dettaglio luminoso di cui lui parla, il foglio-mondo – quei disegni che noi facciamo vedere nel film -, però poi siamo tutti chiamati a riflettere sul nostro foglio-mondo, su come noi possiamo finalmente liberarci del linguaggio alfabetico e trovare delle vie più sensate, più articolate per poter anche instaurare dei dialoghi, per poter uscire da questo gioco della disciplina nel senso dello specialismo, perché il teatro non sia il teatro dei teatranti, perché il cinema non sia il cinema dei cinematografari e la poesia non sia… che in realtà poi lo sarà, perché non sono ambiti che devono essere frequentati da degli improvvisati, ma non deve essere tutto vissuto in una maniera per così dire autoreferenziale, automatica, da automa, da servo del tuo piccolo angolo in cui ti trovi a campare.
NV: Quest’immagine del foglio-mondo era molto efficace e molto ben applicabile all’idea del teatro, in cui è chiaro che il solo posto a sedere che scelgo cambierà la mia esperienza.
CT: Esatto: il posto a sedere, il teatro, il luogo. Pensa a quante variabili, a com’è complesso avvicinarsi ad un’opera. Invece, normalmente, chi se ne frega: uno entra, si sbatte nel velluto dove capita, la maschera gli dice dove andare e tanti saluti, quel che succede succede; è più articolato ma è anche più profondo il modo in cui certe cose devono essere frequentate, perché poi la risposta è più esaustiva, più significativa, ti cambia veramente se la sai frequentare in un certo modo.
NV: Ѐ interessantissimo che anche semplicemente il termine “foglio-mondo” e quello che ha dietro sarebbe la risposta definitiva a quel, secondo me, molto sterile dibattito su dove debbano essere fruite le cose: il film va fruito nella sala, oppure no può essere fruito anche sul telefonino, ecc. In realtà, ogni volta che lo si fruisce, qualunque sia la situazione, si fruisce una cosa diversa; è un problema sbagliato chiedersi dove vada fruito.
CT: Si, si, in qualche misura è vero.

NV: Volete aggiungere qualcosa a quanto detto fin’ora?
DB: Un tema su cui noi ci siamo interrogati sempre molto e che con il lavoro sul cinema ha avuto un approccio ulteriore è il tema della letteratura, intesa non come il corpus dei romanzi e della poesia e degli scritti letterari, ma proprio la letteratura come tutta quella rete di rimandi linguistici, ma anche rimandi simbolici, a tutta una serie di significati che sulla pagina normalmente crea la struttura dell’opera. Normalmente, essendo il teatro figlio della letteratura scritta, qualcosa che parte e procede da un copione, sulla scena noi ritroviamo tutte le tensioni e tutte le intersezioni dei significati simbolici della matrice letteraria da cui proviene e tutto questo crea un apparato di questioni che non sono native della scena, sono qualcosa che è estraneo; questo è uno dei motivi che ci ha portato all’allontanamento dalla parola: abbiamo deciso di abbandonare tutto quel portato letterario che c’è sempre sembrato qualcosa di estraneo da qualcosa che possa essere una ricerca su quello che la scena ha di precipuo e di originario. Chiaramente la parte letteraria non è sparita – molto spesso è andata a finire in un libro, oppure in un articolo -; nel caso del cinema invece la parte letteraria ritorna in gioco come elemento strutturale, come elemento connaturato al mezzo e quindi siamo tornati a confrontarci con i temi che sono della scena e sono anche del video – il tema dell’immagine, il tema del tempo, i temi da cui siamo partiti in questa nostra conversazione – però mettendo in gioco anche l’elemento letterario che puoi vedere in mille cose, a partire dagli autori di cui Sini ci racconta, lo stesso foglio-mondo, la citazione di Heidegger: sono tutti elementi che hanno il diritto di cittadinanza, creando però un nuovo profilo rispetto a quello della letteratura che passa dalla pagina al teatro, perché non è un passaggio, è qualcosa di inevitabile: nel momento in cui filmo e faccio vedere, questo carattere esplicito dell’immagine necessariamente porta con sé quanto meno un portato simbolico che irradia in tutte le ramificazioni del senso, della letteratura, della citazione e di tutto quello che ci può essere; è un altro tema su cui abbiamo riflettuto e continuiamo tutt’ora a riflettere quando prendiamo in mano il discorso film.
NV: Quindi la presenza letteraria come apertura di percorsi possibili all’interno dell’immagine stessa, della rappresentazione stessa, e non come riferimento sacro a cui bisogna per forza aggrapparsi altrimenti non si sta dicendo nulla.
DB: Assolutamente. Ed è inevitabile che compaia esplicitamente, mentre sulla scena è evitabile che compaia esplicitamente, o quanto meno è auspicabile che si riesca ad evitare.
CT: Nel momento in cui noi siamo qualcosa noi siamo letteratura. Ѐ la stessa cosa della presenza dei libri di Sini quando si sta dicendo che i libri non servono a niente; non possiamo uscire dalla letteratura, ma possiamo radicalizzare il problema, possiamo portare il problema a un punto limite: questo è Nietzsche, queste sono le sue parole ne La Nascita della Tragedia, ne La Gaia Scienza, è quello che Nietzsche ripete sempre: noi non possiamo uscire da qui – in realtà Nietzsche dice che possiamo uscire da qui, dice che Wagner è uscito da qui, poi dice che non era vero – però è la consapevolezza di questo problema grandioso. Il teatro ci permette veramente di arrivare a un punto: è il tema della performatività, in cui ancora oggi si fa confusione, tutti parlano di performatività senza sapere di che cosa stanno parlando, eppure c’è tutto il Novecento malamente rimosso, come diceva David, che ce lo ricorda; è il grande tema della performatività, cioè quella linea di confine tra la finzione inevitabile e irreversibile del teatro e la vita, sostanzialmente, quello che è la verità inevitabile della vita; riuscire a frequentare questo confine mettendo in crisi il tema della letteratura così come lo illustrava David – è quello che ha fatto la musica nel Novecento, la pittura ha fatto la stessa cosa, per citare le cose più lampanti – questa secondo me è la sfida, ma se non siamo a parlare di queste cose io credo che non siamo a parlare di nulla.
NV: Per tornare all’inizio di questa nostra conversazione, è come ritrovare il fare della pratica teatrale: il rischio della dimensione letteraria è che si dimentichi proprio che quello che si sta facendo è una pratica, che tra le varie cose ha bisogno di un bilancio, di trovare delle persone, di insegnargli le cose, di trovare dei costumi, delle scene… Nella lettera che Bob Dylan ha mandato per accettare il premio Nobel per la letteratura nel 2016 lui dice che il problema di Shakespeare non era se stesse facendo della letteratura, era dove trovare un teschio umano, il problema del fare, della dimensione pratica di quello che si sta mettendo in scena.
CT: Si, poi il rapporto con gli attori: chi va in scena. Lì si rinnova un problema capitale. Nel cinema certo hai a che fare con gli attori, ma in teatro questo problema… Chi mandi là sopra? Lì non puoi spostare una camera per farlo sembrare come non è, non puoi postprodurlo. Lì il problema è definitivo: anche chi si avvicina alla scena deve aver presenti queste questioni, perché è su quello che deve lavorare innanzitutto, oltre che sulla perizia tecnica e su mille cose che ora è anche inutile mettere in campo. La maestria, come diceva Tanizaki. Diventa tutto una complessità nel teatro che naturalmente è infarcito di letteratura, ma proprio perché ne è infarcito è possibile lavorarci con forza dentro.
NV: Ne è infarcito, ma non ne è asservito, ecco.
CT: Si, dovrebbe.
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