
Call of God – Alla fine di tutto | Venezia 79
Alla fine di ogni cosa, doveva esserci, e c’è stata, un’immagine d’amore. Da Kim Ki-duk dovevamo aspettarcelo. E nonostante Call of God, presentato Fuori concorso a Venezia 79, non sia nelle intenzioni propriamente un film testamentario, data la prematura e improvvisa dipartita dell’autore coreano nel dicembre 2020, finisce per ricoprirne la funzione in modo (quasi) del tutto naturale, calzante. Dicevamo dell’amore come destinazione ultima, che a ben guardare è stato il terreno fertile nel quale, in modo rizomatico, è stato piantato e poi eradicato ogni slancio, ogni propulsione di violenza idiosincratica, di folli asperità presenti nella filmografia del regista. Da Arirang (2011) siamo poi muniti di tutte le coordinate necessarie per comprendere meglio quello che Kim Ki-duk ha cercato di fare sin da quando, proprio alla Mostra del 2000 con L’isola, è stato portato sui palcoscenici internazionali. Tirar fuori dall’essere umano tutto ciò che ha dentro (persino dagli orifizi), cioè le sue pulsioni, i sentimenti, e facendo inevitabilmente delle immagini un generatore tutto istintuale di questo processo.
Call of God fa esattamente questo, alla lettera. Assegna alla prima esperienza sessuale ed emozionale della sua protagonista il suo centro di gravità. Siamo in Kirghizistan, il luogo in cui il regista si era rifugiato prima della sua scomparsa. Accanto alla donna trova posto un uomo ben più navigato nei rapporti con le donne, un dongiovanni da sottomettere facendo affidamento a un libro sulla costruzione di relazioni affettive, un vademecum apparentemente di brutale efficacia. Solo che la sottomissione, l’appropriamento dell’altro, è un fatto soprattutto fisico. Dopo il sesso e le reclusioni in casa che i due si autoimpongono come conseguenza di una gelosia morbosa, non può esserci nient’altro se non un’infermità crescente. L’amore infermo è ovviamente un abominio, specie in Kim Ki-duk. Entrambi i personaggi lo comprenderanno troppo tardi, quando il rovesciamento subdolo dei rapporti di potere tra l’uno e l’altro è già diventato la pratica a cui entrambi si applicano.

Ora, la grammatica del film è per lunghi tratti fumosa, l’affinamento della materia grezza poco pronunciato. Kim Ki-duk se n’è andato prima della conclusione dei lavori, portata quindi avanti da un giro di stretti collaboratori. Ma per quanto funzioni come giustificazione, il cinema dell’autore coreano si era già da tempo asciugato e fatto sgraziato, modulandosi su scelte formali e narrative (per fortuna) dalla levità miracolosa. L’aura di esotismo delle prime incursioni che da spettatori sentivamo attorno alle sue immagini si è rarefatta, se non proprio prosciugata, specie perché ne abbiamo fatto abbondantemente esperienza. Era naturale fosse così. Eppure funziona (ancora) tutto a meraviglia: le scelte scellerate d’amore prese dai personaggi e la loro messa in quadro hanno l’impeto istintuale (lo dicevamo sopra, l’istinto è tutto per l’autore) necessario a spaccare, sabotare la superficie, la forza abrasiva dell’imprevisto. “I film sono una verità. Non c’è bisogno di luci o cineprese professionali. C’è troppa preparazione per catturare un singolo istante. Detesto la preparazione logistica di un film”. Così Kim Ki-duk in Arirang.

Come un ultimo vagito disperato, un pianto che nasce in fondo all’anima, la verità di Kim si mostra nella forma di un amore sconfinato e numinoso per i suoi personaggi, per il suo e per tutto il Cinema. Nonostante le brutture, la necrofilia, i lividi e il livore. La chiamata da Dio del titolo (o dal cielo, nella traduzione scelta dai curatori della Mostra) è una telefonata notturna che qualcuno dall’alto fa alla protagonista per farle vivere quest’esperienza lacerante, inducendola in un sogno ombelicale dalla consistenza realistica (dove il dolore di una botta alla testa diventa poi, da sveglia, il dolore di un’emicrania). Ma il vero Dio è il creatore delle sue stesse immagini. La realtà, la verità per Kim Ki-duk è un risveglio luminoso dal bianco e nero, il rovesciamento in un’immagine a colori che riavvolge il nastro e ci riporta all’inizio di questo incontro, immaginando – votati al bene come siamo, bisognosi di bellezza alla fine del viaggio accanto al nostro caro autore – che stavolta le cose vadano per il meglio.
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