
Ma oggi i filosofi sono agnelli – Carmelo Bene, Heidegger, Nietzsche e il problema della memoria
“Non parlo a chi mi rompe i coglioni con l’Essere e con l’Esserci, non voglio parlare con l’ontologia! Abbasso l’ontologia, me ne strafotto! Ne parli col Professor Heidegger, non con me!”. Frammista ad altre invettive contro il Rwanda, contro i giornalisti professionisti, contro la democrazia, a favore di una nuova concessione del porno, questa fu una delle più sibilline esternazioni pronunciate da Carmelo Bene nel corso della sua leggendaria apparizione al Maurizio Costanzo Show del 1994 – un evento in diretta che, nel riportare l’attenzione del pubblico su Bene dopo alcuni anni di relativa Assenza dalle scene, mirava anche a cortocircuitare, e volutamente, ogni prassi del linguaggio televisivo tanto in termini di forma quanto a livello di contenuto. “Quando facevo Acquario in RAI” si trovò a dire Maurizio Costanzo per calmare gli animi dei giornalisti scandalizzati di fronte alle provocazioni più oltranziste, dalla puntata del 1979 in cui era apparso C.B. “furono fatte ben dieci tesi di laurea”.

Elevatissimo fu, anche nel 1994, il livello della conversazione: da Nietzsche a Derrida, dalla mistica Ludovica Albertoni fino alla parodia dei moderni rotocalchi, innumerevoli schegge di cultura e culturame furono fagocitate da Bene sotto gli occhi increduli di Costanzo e del pubblico – ma quella frase di Bene su Heidegger è rimasta particolarmente impressa nella memoria collettiva, perlomeno dei fan di C.B., quasi quanto l’“io me ne fotto del Rwanda” che rappresentò l’apice provocatorio della serata. A indurre Bene ad inveire contro Heidegger era stata la domanda di una giornalista, che voleva dileggiare l’abitudine di C.B. a negare schopenhauerianamente e cinoticamente la sua stessa esistenza: “vorrei fare un’osservazione su questo personaggio che, ‘non essendo io, non conosco, però si sta il esibendo nel nulla da circa 40 minuti”. Finita l’invettiva contro l’ontologia, C.B. si prese la briga di insultare anche lei: “parli con Heidegger e vada a fare in culo!”.
Di fronte a un tale scoppio di tonante disprezzo filosofico e umano, è stato gioco facile dei contemporanei ammiratori di C.B. trarre da quella battuta una GIF e sinanche un meme; ma uno sguardo più attento nella globalità della sua opera letteraria, teatrale e filmica fa sorgere un dubbio più profondo. Fino a che punto è giusto assecondare la lettura di un Bene che, andando contro tutti e tutto, è andato anche contro Heidegger? Quell’“abbasso l’ontologia” può essere tanto un’uscita estemporanea, quanto la punta dell’iceberg di una critica ben più completa e, per quanto potesse essere possibile a un erede di Artaud quale era C.B., “argomentata” – ma se fosse invece il segnale di un’attenta lettura di Heidegger compiuta da Bene, per poi rifiutarlo?

In questa ipotesi, ci viene in aiuto la lista dei libri preservati nella biblioteca personale di Bene. Questa biblioteca adesso si ritrova disseminata in diversi archivi e abitazioni, con grande sdegno di tutti gli esegeti e i filologi che sin dai primi anni duemila hanno seguito con trepidazione e disprezzo le alterne vicende delle varie fondazioni, poli museali e archivi che si sono ipotizzati per tramandare la memoria e le opere di C.B.; ma in uno dei più accessibili elenchi di libri della biblioteca beniana disponibili in rete, quello curato da Riccardo Cavani, si trovano ben tre diversi volumi di Heidegger, l’epocale Essere e Tempo, L’abbandono e Sentieri interrotti, oltre che Heidegger e il problema dell’umanesimo di Ernesto Grassi, uno dei primi esegeti italiani del pensiero heideggeriano. Questa lista, per inciso, è solo parziale, e non copre l’integrità dei volumi custoditi da Bene nelle sue molteplici case.
Questa concentrazione, questa presenza di svariati libri di o su Heidegger nella sua biblioteca personale non implicano un’ammirazione; sottintendono però un confronto autenticamente avvenuto col corpo delle opere testuali del grande filosofo tedesco. Heidegger e Bene si mossero sui lati opposti delle barricate, il primo fu il filosofo dell’Essere e dell’Esserci, l’altro fu il propugnatore scenico dell’Assenza e del Non-Essere, del non-esserci-più, del non esserci mai stati – eppure, la nostra ipotesi è che qualche traccia del confronto con Heidegger sia rimasta nell’opera di Bene, soprattutto a proposito di un tema fondamentale per Heidegger come per C.B. come anche per Nietzsche — quello della memoria.

Partiamo da uno dei momenti in cui il pensiero heideggeriano si incunea maggiormente nei suoi versanti più escatologici, un passo meraviglioso di Che cos’è la metafisica?, in cui ex abrupto si parla de “l’immemorabile avvento dell’ineluttabile”. Cos’è? La fine del mondo? Quell’unum deum che, solo, può salvarsi, profezia che Heidegger affidò ad una chiacchierata intervista postuma? Il pensiero più autentico, e più lancinante, sull’Essere, dell’Essere? La radicale comprensione che l’Essere-nel-mondo sfoci furiosamente nell’Essere-per-la-morte? Heidegger non lo spiega, né lo chiarisce – e quel passo resta come un abisso nella sua opera, pareggiato solo da certi lampi di Oltre la linea.
Il luogotenente del niente, la sentinella dell’essere, il nullatenente del palco – Carmelo Bene tutta la sua vita la passò a predicare l’Assenza. Per Heidegger, l’essenza del poetare è il ricordare – come traduceva il compianto Leonardo Amoroso, rammemorazione. Carmelo Bene portò la recitazione in pubblico dei versi del canone italiano al livello di cerimonia laica eppure sacramentale – cruciale la sua Lectura Dantis dall’alto della Torre degli Asinelli, a un anno dalla strage di Bologna – e nondimeno ha sempre affermato di perseguire un’idea di lettura come oblio, di “lettura paradossalmente come non ricordo”. Bene e Heidegger non potrebbero essere più distanti di così, sul tema della memoria – ma è proprio questo il punto.

L’Immemoriale. Così si sarebbe dovuta chiamare, per disposizione testamentaria, la Fondazione atta a preservare la memoria, le opere e l’archivio di Carmelo Bene oltre la sua morte. Non vale la pena ripercorrere le complesse vicende che ne hanno portato alla sua rapida chiusura, né le cause giudiziarie e le polemiche che si sono succedute tra le diverse eredi, sorelle, vedove o figlie di C.B. Quello che conta è il nome, l’Immemoriale.
“Chi non sa sedersi sulla soglia dell’attimo, dimenticando tutto il passato, chi non sa stare dritto su un punto senza vertigini e paura come una dea della vittoria, non saprà mai che cos’è la felicità e ancora peggio, non farà mai qualcosa che renda felici gli altri”. A parlare chiaramente non è Heidegger, e non è neanche Carmelo Bene, ma è Nietzsche, il Nietzsche della seconda Considerazione Inattuale; che contro ogni platonismo ed ogni gnosi, invoca il potere salvifico dell’oblio. “Immaginatevi l’esempio estremo, un uomo che non possedesse affatto la forza di dimenticare, che fosse condannato a vedere ovunque un divenire: un tale uomo non crederebbe più al suo proprio essere, non crederebbe più a sé stesso… infine, come vero discepolo di Eraclito, quasi non oserebbe più alzare un dito”.

È in questo chiasmo che vale la pena di soffermare brevemente lo sguardo: Carmelo Bene, nell’invocare l’oblio e nell’attestare la dépense, si colloca sulla falsariga di Nietzsche e di certo dionisismo, ma nel dare il nome alla sua fondazione utilizza un termine dalla storia complessa, quale è “immemoriale”, che non manca di approdare dalle parti di Heidegger. Ampliando appena lo sguardo, non è difficile rivenire nel complesso della sua opera una lunga serie di termini, di espressioni e di aforismi che con immemoriale fanno costellazione: uno su tutti, l’apodittico incipit della sua folle autobiografia Sono apparso alla Madonna, “v’è una nostalgia delle cose che non ebbero mai un cominciamento”.
Immemoriale è un termine denso. A livello giuridico, il Dizionario della Treccani lo accosta a immemorabile, suo quasi-sinonimo, e afferma che lo si usa per parlare “in diritto, di rapporto la cui origine remota può consentire presunzione di legittimità sulla sua costituzione”. Più genericamente, il termine immemoriale viene anche usato per indicare ciò “che dura da sempre, da tempi remotissimi”. Carmelo Bene lo usa invece (anche) per indicare ciò che non ha memoria, e ciò di cui non si può avere memoria, perché ineffabile per definizione – e nell’adoperare questo lemma, si pone al tempo stesso nella continuità di una millenaria tradizione, e nell’impossibilità di approdare alla consapevolezza della stessa. Tutto sfugge, fugge e cade.
Approdiamo ad Heidegger, adesso. Heidegger è un filosofo che ama molto, lo abbiamo già visto, parlare di ciò che è immemorabile, nei passi densi della sua opera – e nel suo legame viscerale con le origini della filosofia occidentale, è davvero l’antitesi o, come voleva Calasso, la risposta a Nietzsche. Tanto era forte, per Nietzsche, la pulsione a pensare, e per la prima volta, contro ogni platonismo, quanto impellente era per Heidegger la volontà di risalire indietro lungo i corsi e i ricorsi del pensiero occidentale, fino ad approdare a ritroso, ben prima di Platone e di Socrate, alla domanda fondamentale sull’Essere.
Ecco allora il chiasmo in cui si colloca Carmelo Bene. In Nietzsche, il concetto di immemorabile non ha particolare rilievo, certo non quello che assume nel cuore di una delle opere-chiave del pensiero heideggeriano, quale è Che cos’è la metafisica?. Dall’altro lato, C.B. – rispettando consapevolmente le riflessioni leopardiane sulla poeticità dei termini connessi all’area semantica della rimembranza – utilizza questo termine proprio per affermare un concetto vicino alla sensibilità nietzschiana: una ricerca delle origini che sfocia senza soluzione di continuità nell’impossibilità della memoria, nell’oblio prima del Tutto. Come a dire: si può rileggere Nietzsche con Heidegger, come Heidegger ha effettivamente fatto in prima persona – ma si ritorna sempre a Nietzsche.

Pudenda origo è un’espressione celebre e drasticamente corretta – eppure, pochi artisti italiani nel XX secolo sono stati così profondamente legati alle proprie origini (provinciali) quanto Carmelo Bene. Formidabile a tal riguardo Nostra Signora dei Turchi, il libro e ancor di più il film, girato da C.B. nella sua stessa residenza salentina. E quella frase d’esordio di Sono apparso alla Madonna, “v’è nostalgia delle cose che non ebbero cominciamento”, può anche essere riscritta così: “v’è nostalgia delle cose anarchiche”. L’italiano anarchia deriva dal greco ἀναρχία, ἀ privativo + ἄρχ* – radice tematica che indica tanto l’idea di autorità, quanto il concetto di inizio. In quell’esordio folgorante, è riassunta implicitamente tanto l’idea di un’irriducibilità all’ordine dato, ai dettami della società – costantemente propagandata da C.B. lungo tutto il corso della sua vita – quanto una posizione del tutto fuori dal tempo, dalla Storia, dal mondo fisico.
Una considerazione importante: “immemorabile” è sì una parola-chiave del lessico heideggeriano, ma nella resa italiana dello stesso. Heidegger, ovviamente, non parlava di un’immemorabilità: parlava, se mai, di ciò che è unvordenklich. Ciò non toglie che immemorabile sia una parola canonica, nell’approcciare, da italiani, l’opera di Heidegger – che C.B. lesse tradotta. Si deve soprattutto alla casa editrice Adelphi una perizia ermeneutica invidiabile nel traslare dal tedesco all’italiano i concetti della filosofia – e questo vale tanto per Heidegger, quanto per Nietzsche. Per Heidegger, i principali delineatori di un glossario di traduzione standard furono, dopo le prime esperienze di traduzione di Pietro Chiodi, Franco Volpi e il già citato Leonardo Amoroso; nel caso di Nietzsche, il discorso è ancora più ampio, perché i due studiosi Giorgio Colli e Mazzino Montinari realizzarono non solo la traduzione, ma anche l’edizione critica delle opere di Nietzsche, la cui pubblicazione fu una delle “cause scatenanti” della fondazione dell’Adelphi. Una casa editrice rispetto alla quale, per inciso, Carmelo Bene manifestò sempre grande ammirazione – e la proiezione della sua biblioteca ricostruita presso l’archivio storico di Lecce strabocca di volumi adelphiani.

In questo senso, assolutamente significativa risulta essere la partecipazione di Carmelo Bene, nel 1980, al documentario alla memoria di Colli, il Diels italiano, curatore, oltre che dell’opera omnia di Nietzsche, anche di alcune edizioni-traduzioni dei frammenti dei presocratici che erano pezzi di filosofia a sé. Nel documentario, Bene recitava diversi brani di Colli, incluso uno in cui ci si dilunga, nietzschianamente, a proposito di una “origine oscura”, e dionisiaca, “della sapienza”. A Colli, e al suo allievo Montanari, si deve come ricordavamo l’edizione forse più completa degli scritti di Nietzsche, e queste parole da parte sua sono quasi scontate: mentre Heidegger, come definitivamente denunciato da Derrida nella sua Violenza e metafisica, ha calcato la mano sul nesso tra conoscenza, luce e bonum, su un valore positivo da attribuire al concetto originario di ἀλήθεια come svelatezza. Sono differenze abissali.

Nietzsche e Heidegger si trovano su abissi simmetrici anche a proposito del tragico, del tragico greco e del tragico assoluto: Nietzsche ne fornisce l’interpetazione più poetica di sempre, Heidegger ne delinea la struttura epistemologica; eppure il secondo resta ancorato ad un’inestirpabile positività del pensiero, in cui anche l’angoscia e la consapevolezza fragile dell’umana gettatezza quantomeno possono essere riscattate grazie a un approdo in un’autoconsapevolezza maggiore e maggioritaria, in un’“esistenza autentica” e autodestinale. La distinzione tra apollineo e dionisiaco tracciata da Nietzsche nella Nascita della Tragedia dallo spirito della musica è fin troppo nota perché valga la pena dilungarsi a riassumerla in squallide parafrasi, e la sua problematizzazione di Euripide, la sua demonizzazione di Socrate altro non sono che corollari di questa intuizione originaria. Diverso è il discorso da fare su Heidegger, molto più legato ai presocratici, e ai poeti lirici dei secoli oscuri della Grecia, per soffermarsi più del dovuto sul fronte del tragico. E più che rivolgerci direttamente a ciò che Heidegger ha scritto apertis verbis a proposito del teatro nell’Atene del V secolo a.C., conviene risfogliare le pagine che approfondiscono il significato originario di ἀλήθεια, per comprendere qualcosa della teofania misterica originariamente alla base della tragedia greca.
Torniamo a Carmelo Bene adesso – a uno dei momenti più alti del suo cinema, il “monologo dei cretini” di Nostra Signora dei Turchi, presente anche nell’omonimo romanzo. Uno dei passaggi centrali di quel monologo quasi in versi – “e gli occhi hanno visto la Vista/uno sguardo” – sembra recuperare in nuce la radicalità del sapere tragico che i greci avevano posseduto appieno, delineato. Non per nulla lo stesso verbo, θεωρέω, indicava tanto il “guardare”, e a volte nello specifico il guardare da spettatori di teatro, quanto il comprendere, l’analizzare. “E gli occhi hanno visto la Vista/uno sguardo”: quale differenza c’è tra questa battuta e quell’οπῶν ορῶντα (“guardandolo guardare”) rinvenuto dal Jean-Pierre Vernant di Figure, Idoli, Maschere al cuore della caratterizzazione euripidea del Dioniso delle Baccanti? Verrebbe da postulare una genealogia diretta, seppur lontanissima – immemorabile, appunto.

Cos’è il tragico? E qual è l’antitragico? Vincenzo Di Benedetto, uno dei più grandi grecisti italiani, attestava che “nella tragedia greca, il vero male deriva dal conoscere” – e retrospettivamente gli davano ragione Le Baccanti euripidee, in quel distico del coro che proclama “savio non è chi troppo è savio, e l’occhio/oltre agli umani limiti”.
Solo in una prospettiva che tenga alla mente la lezione del classico greco si può arrivare a capire la portata delle riflessioni implicite nell’opera di C.B. sul tema della memoria, oscillanti tra Nietzsche e Heidegger. In diverse tragedie, nelle Baccanti e in maniera esemplare nell’Edipo poi freudianizzato, il momento autenticamente tragico si consuma sotto forma di rammemorazione – il male viene sempre dal passato. L’oblio diventa allora una strategia paradossale, ma non ingiustificata, per fare schermo contro il tragico – un fatalismo. Carmelo Bene descrisse la sua Salomè come un film “sull’impossibilità del martirio in un mondo presente”; si potrebbe parafrasare questa dichiarazione affermando che, nell’attuale, impossibile è anche il tragico.
Non per nulla, nell’Autografia d’un ritratto che precedeva il volume delle sue Opere edito da Bompiani C.B. rivendicava di aver operato una “sospensione del tragico”, nel suo teatro senza spettacolo. Emiliano Morreale, nella sua prefazione alla raccolta di interviste beniane da lui curata Contro il cinema arrivò a parlare a proposito di C.B. di un Oltre-tragico – perché col tragico C.B. pur sempre flirtava, soprattutto quando si rifaceva ai drammi shakespeariani da spogliare in scena.

Cinema è quando gli occhi miei si chiudono solo a guardarmi dentro, scrisse una volta Carmelo Bene. A questo punto, cos’è più terrificante – guardarsi dentro e trovare il vuoto dell’oblio, o guardarsi dentro e rinvenire infinite tradizioni, miriadi di versi in attesa di essere pronunciati, e pronunciati ancora? È qui che si gioca il crocevia della memoria, tra Nietzsche ed Heidegger – nell’irriducibilità delle rispettive tradizioni, visto che Nietzsche è sì il filosofo dell’oblio, ma ancor di più quello dell’eterno ritorno. Carmelo Bene, principe nell’Assenza, “come santa Teresina” vuole tutto, e scavalca queste ultime sospensioni. Ecco allora il senso di quel vociare lutulentulus che sconvolse il pubblico del Maurizio Costanzo Show tra invettive contro l’ontologia e insulti contro il Rwanda, ecco il senso di un’attività (off-) scenica durata più di quarant’anni, ma, proprio perché tolta di scena, an-archica, assoluta: dimenticare tutto, non scordare nulla.
Bibliografia
Carmelo Bene, Sono apparso alla Madonna. Vie d’(h)eros(es), Longanesi & Co., Milano 1983
Carmelo Bene, Giancarlo Dotto, Vita di Carmelo Bene, Bompiani, Milano 2002
Carmelo Bene, Opere. Con l’Autografia d’un ritratto, Bompiani Classici, 2004
Carmelo Bene, Contro il cinema, Minimum Fax, Roma 2017, a cura di Emiliano Morreale
Giorgio Colli, La nascita della filosofia, Adelphi, Milano 1975
Giorgio Colli, Scritti su Nietzsche, Adelphi, Milano 1980
Jacques Derrida, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1990
Vincenzo Di Benedetto, Enrico Medda, La tragedia sulla scena. La tragedia greca in quanto spettacolo teatrale, Einaudi, Torino 2002
Euripide, Le Baccanti, BUR – Rizzoli, Milano 2004, a cura di Vincenzo Di Benedetto
Martin Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano 2005, nuova ed. italiana a cura di Franco Volpi sulla versione di Pietro Chiodi
Martin Heidegger, Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano 2001, a cura di Franco Volpi
Martin Heidegger, Nietzsche, Adelphi, Milano 1994, a cura di Franco Volpi
Martin Heidegger, La poesia di Hölderlin, Adelphi – Biblioteca Filosofica, Milano 1988
Martin Heidegger, L’essenza della verità, Adelphi – Biblioteca Filosofica, Milano 1997
Martin Heidegger, Parmenide, Adelphi – Biblioteca Filosofica, Milano 1999
Friederich Nietzsche, La nascita della tragedia, Feltrinelli, Milano 2015, a cura di Susanna Mati
Francesca Rachele Oppedisano, Carmelo Bene. Un lottatore contro il tempo, Università degli Studi della Tuscia, Viterbo 2007
Jean-Pierre Vernant, Figure, Idoli, Maschere, Edizioni SE, Milano 2014
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