
Elvis di Baz Luhrmann – Una fiaba americana votata all’eccesso
La nostra recensione di “Elvis” (2022) di Baz Luhrmann, che abbiamo visto in anteprima in seguito alla cerimonia di premiazione della XVIII edizione di Biografilm Festival. Il film è disponibile nelle sale italiane dal 22 giugno.
Elvis Presley, The King. Una delle icone pop più di impatto non solo nella storia della musica, ma anche della cultura americana stessa, non ha di certo bisogno di presentazioni. Come al solito, realizzare un film biografico su una figura dall’eredità eccezionale e ingombrante e così impressa nell’immaginario collettivo – anche oltreoceano e in quello ultragenerazionale – è una sfida che presenta il pericolo di appiattimento della struttura narrativa su tappe drammatiche obbligatorie sulla scia del rise and fall (and rise again). Quello che si sceglie di mostrare in un film biografico, inoltre, costruisce una mitologia ben precisa e inquadrata della vita dell’artista, che rischia di scontrarsi con la complessità dell’esperienza umana. D’altra parte sappiamo che, quando si tratta di personaggi così grandi, l’esplorazione del mito può essere importante tanto quanto l’aspetto umano, dal momento che finisce per rivelare aspetti profondi della cultura popolare.

Fin dall’apparizione sullo schermo del logo di Warner Bros tempestato di gemme, è chiaro che Elvis di Baz Luhrmann sarà improntato all’eccesso visivo, in pieno stile Elvis e in pieno stile Luhrmann. Con il contributo del montaggio di Matt Villa e Jonathan Redmond e della direzione della fotografia di Mandy Walker, Lurhmann costruisce immagini caleidoscopiche e appariscenti con vividi movimenti di camera e montaggio frenetico, servendosi di split screen e grafiche rétro. Ovviamente, trattandosi di un biopic musicale, la musica riveste un ruolo di primo piano, a partire dalle ammalianti performance di Austin Butler nei panni di Elvis, fino agli “anacronismi” della colonna sonora che presenta artisti contemporanei.
Sul lato narrativo, oltre all’(ormai immancabile) inserimento di filmati di repertorio sul finale, Lurhmann riprende i fondamenti della carriera di Elvis (con tanto di tappe obbligate): dagli esordi rivoluzionari – segnati dalla profonda influenza della musica nera, blues e gospel, unita all’americanissimo country – all’incontro con il colonnello Tom Parker (Tom Hanks), il suo controverso manager; dal successo alla caduta e al tentativo di rialzarsi.

Elvis sceglie di soffermarsi su precisi eventi e aspetti della carriera, della vita e della personalità del cantante di Tupelo. E se forse possiamo accettare lo scarso approfondimento della relazione di Elvis con Priscilla (Olivia DeJonge), dal momento che il film mette al centro il suo rapporto con il manager Parker, appare meno comprensibile la decisione di glissare sulle sue simpatie repubblicane, approfondendo esclusivamente le sensibilità liberali – per cui gli assassinii di Martin Luther King e Bobby Kennedy lo coinvolgono emotivamente – e l’impegno politico nelle canzoni di protesta.
Il film si dimostra attento nell’affrontare il dibattito attorno all’appropriazione della musica afroamericana da parte di Elvis, sottolineando l’enorme debito nei confronti di artisti come B.B. King (Kelvin Harrison Jr.), Arthur “Big Boy” Crudup (Gary Clark Jr.) e Sister Rosetta Tharpe (Yola), ma anche il contributo della sua musica “mista” all’apertura verso la desegregazione razziale, per cui Elvis ricevette critiche e condanne da parte della stampa.

Il ritratto di Elvis che ne esce fuori è tuttavia meno complesso e contraddittorio di quanto potrebbe essere. Luhrmann sceglie di fare un passo indietro rispetto alla vita personale dell’artista e costruisce una fiaba americana, in cui Parker è il cattivo e Elvis ne è la vittima caught in a trap, a partire dall’incontro in un labirinto di specchi fino a quei cinque lunghi anni sul luminoso palco di Las Vegas.
Elvis parla, in fondo, di quel rapporto complicato tra arte e industria. Per questo risulta interessante che a narrare la storia sia proprio Parker, l’uomo che ha monopolizzato la libertà artistica e personale di Elvis e sfruttato la sua fama, dalla sua prospettiva distorta e piena di autogiustificazioni – “I am the man who gave the world Elvis Presley and yet there are some who would make me out to be the villain of this story” – sebbene le ragioni del così profondo attaccamento di Elvis al suo manager rimangano comunque in superficie.
C’è un’amara ironia nel fatto che ad avere controllo sulla narrazione sia proprio l’uomo che ha avuto il controllo sulla vita di Elvis, ma tutto sommato vale la pena spendere in una sala cinematografica 2 ore e 39 minuti per immergersi nel reboante mondo dell’Elvis di Baz Lurhmann.
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