
Arriva al cinema “Bohemian Rhapsody” (and may God save the Queen)
Annunciato da Brian May nel 2010, abbandonato da Sacha Baron Cohen (che avrebbe voluto vestire i panni di un Freddie Mercury più “oltraggioso”) nel 2013, rimbalzato da un regista all’altro fino ad essere assegnato a Bryan Singer (che però si fa licenziare a poco più di metà film), dal 29 novembre Bohemian Rhapsody è finalmente approdato nelle sale italiane come un transatlantico carico di aspettative, retroscena, curiosità e tanta, tanta confusione.
Girare un film biografico su una band che ha scolpito il suo nome nelle pietre miliari del Rock, con uno dei frontman più carismatici, talentuosi e controversi di sempre non è certo cosa facile, e nel vedere questo film è giusto tenerlo a mente. “Cosa mostrare? Quanto aderire alla realtà? Quale messaggio si intende comunicare?”; in molti si saranno posti queste domande ma, risultati alla mano, è piuttosto evidente da dove siano arrivate le risposte.
Girato principalmente tra il Regno Unito e gli States, il film ci mostra i primi quindici anni di attività della band: dall’incontro fuori da un pub fino al celebre concerto Live Aid, passando per gli album più significativi. Tra studi di registrazione e concerti il film prende un buon ritmo e spinge sulla componente dell’intrattenimento: coraggio, spavalderia, costumi colorati e una buona dose di iconografia che strizza l’occhio allo spettatore.
Al centro indiscusso della scena il giovane parsi Freddie Bulsara (in arte “Mercury”), interpretato dall’attore egiziano Rami Malek che, con indiscussa determinazione ed una personalità da outsider che sposa degnamente il personaggio, regala agli spettatori una performance intensissima. Nonostante la narrazione non riesca a nascondere una certa impronta “caricaturale” dei personaggi (basti pensare agli spropositati denti finti di Freddie), Malek si impone di andare in direzione opposta, aggiungendo profondità ad un personaggio dalle mille sfaccettature che viene costantemente appiattito da una sceneggiatura un po’ superficiale.
Assieme al racconto aneddotico della nascita dei maggiori successi dei Queen e a performance live riprodotte con grande accuratezza, viene affrontato il tema della sessualità. Freddie è l’unico, in effetti, di cui venga raccontata la sfera privata: un visibile tentativo di scalfire la superficie e scavare nell’intimo del personaggio. Il risultato resta in molti punti un po’ edulcorato, spesso allusivo, viene però colto – e ancora una volta buona parte del merito va all’interpretazione di Malek – il tormento che accompagna il frontman, la cui dipendenza più pericolosa non è altro che il disperato bisogno di essere amato.
Il film scorre, sostenuto da una colonna sonora che fa davvero la differenza: due ore abbondanti di intrattenimento un po’ innoffensivo, ma dove decine di successi planetari vengono snocciolati uno dopo l’altro. Bohemian Rhapsody, Somebody to love, We will rock you, Another one bites the dust e molte altre, a un ritmo che fa venire la pelle d’oca.
La maestosità della produzione musicale dei Queen ruba la scena a quasi tutto il resto: come in una didascalica definizione di “ossimoro”, Bohemian Rhapsody è un film che non osa, non sperimenta, anzi, si culla in una struttura classica che si adatterebbe a molte rassicuranti storie di tipico stampo statunitense, dove il protagonista si accorge dei suoi errori e torna dai suoi cari vecchi amici per realizzare assieme il loro sogno, sia esso esibirsi davanti al pubblico di Wembley, vincere un campionato di baseball o essere incoronati “reginetta di primavera”. Non uscire quasi mai da una sorta di comfort zone ha sicuramente aperto i box office italiani e internazionali a una fetta di pubblico molto ampio, portando gli incassi del film oltre i cinquecento milioni di dollari a poco più di un mese dall’uscita.
Negli ultimi venti minuti il film chiosa con una riproduzione meticolosa e integrale dell’esibizione dei Queen al Live Aid. Scelta finalmente un po’ più coraggiosa e innovativa che mette in evidenza ancora una volta l’interpretazione appassionata di Rami Malek mentre emula un mostro sacro del Rock nel suo habitat ideale, il palco, confermando che la resa delle performance live è il vero punto di forza di questo film.
Bohemian Rhapsody, insomma, è il tentativo dei Queen di oggi (May e Taylor) di raccontare la loro storia cercando di ammaliare il pubblico mondiale. Il risultato è un film che intrattiene e che commuove, la sensazione, però, è che l’obiettivo finale sia di ridare luce a una band il cui momento di gloria è finito più di vent’anni fa, piuttosto che quello di lasciare un “testamento artistico”, un racconto onesto e senza veli che solo chi riconosce l’arrivo della fine dei suoi giorni (artistici e non) ha il coraggio di dare.
Manca un po’ di realismo, un po’ di durezza e perché no, antipatia. Manca qualcuno che per una volta dica la cosa sbagliata al momento sbagliato, qualcosa che ci allontani dall’atmosfera di fiaba che caratterizza tutto il film. Ma più di tutto ci manca il Freddie di “Innuendo”, ultimo capolavoro dei Queen, registrato tra Londra e Montreux e pubblicato pochi mesi prima della sua morte. Manca il ricordo di un uomo che usa la sua Arte per rimanere attaccato alla vita fino all’ultimo respiro e così facendo vince la morte stessa, trasformandosi in leggenda.
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