
La persona peggiore del mondo – Una formazione sentimentale
Il nome di un film ha un potere immenso sulle attese dello spettatore e La persona peggiore del mondo (2021) di Joachim Trier non fa eccezione: letto il titolo, è impossibile non chiedersi di chi si tratti, e cosa abbia fatto questa persona per essere così deprecabile. Ad accrescere una curiosità già così stuzzicata potranno contribuire la premiazione al festival di Cannes a Renate Reinsve nel ruolo della protagonista Julie e due nomination agli Oscar (per la sceneggiatura di Eskil Vogt, fra l’altro regista di The Innocents, e in qualità di miglior film straniero di fianco al nostro È stata la mano di Dio).

Il film sfrutta l’occasione d’oro di un titolo intrigante aprendosi in velocità: il prologo presenta Julie impegnata a cercare una carriera che la soddisfi. Le scene rapidamente accostate permettono di entrare in confidenza con lo stile di regia, molto attento ai dettagli sonori (passi, respiri, fruscii), alla resa naturale delle interazioni e a uno sparuto ricorso alla voce narrante. Allo stesso tempo Julie viene individuata nel suo personaggio impulsivo e leggero, dalle scelte di vita improvvise e le brevi relazioni appassionate. Prima dei dieci minuti conosce Aksel, di cui si innamora e con cui va a vivere dopo una prima fase idilliaca del rapporto raccontata per espresso.
A questo punto i tempi rallentano, e la narrazione può permettersi di indugiare sulla parte che più le interessa della relazione: non tanto l’incontro e la conoscenza iniziali, quanto il consolidamento del rapporto, quel graduale orientare il futuro verso una direzione comune.
Il racconto si articola, a mo’ di libro, in dodici capitoli, più un prologo e un epilogo. A differenza, ad esempio, di La la land (2016), in cui il film è diviso in stagioni per motivi prevalentemente estetici e tematici, nella Persona peggiore del mondo le singole sezioni sono dotate di titoli brevi e descrittivi, e questa pur microscopica qualità rende la vicenda così comprensibile, così ben segmentata nel suo sviluppo, che viene da chiedersi come mai l’espediente non goda di maggiore popolarità. E lo stesso interesse generato in principio dal nome del film viene rintuzzato dai titoletti dei singoli capitoli, con formule come Tradimento e Bad timing.

In generale, poi, la mano del regista è molto lieve: a parte una certa predilezione per inquadrature fisse anche durante gli scambi dialogici, che danno un tono quasi documentario al racconto, il film si comporta come una commedia romantica hollywoodiana. Due momenti risaltano per una certa distanza da una direzione “invisibile”, ed entrambi comunque non calpestano certo nuovi sentieri: la corsa di Julie attraverso una Oslo immobilizzata nel tempo e la sequenza psichedelica nel capitolo Il circo narcisistico di Julie. Entrambe le situazioni, per quanto si distacchino dal naturalismo del resto del racconto, sono quindi facilmente comprensibili e corrispondono a momenti di svolta nella maturazione della protagonista.
Spesso nelle relazioni al centro delle commedie romantiche il conflitto viene da fattori esterni: la differenza di status in Pretty Woman (1990); il peso delle storie precedenti in Sliding Doors (1998), o nel divertente Non mi scaricare (2008). Il sentimento dei due innamorati è però raramente sotto scrutinio di per sé: sono innamorati e tanto basta. Anche nel più (letteralmente) cerebrale Se mi lasci ti cancello (2004) la storia prende in considerazione i conflitti di coppia ma per il finale i due innamorati ricominciano la loro frequentazione. Per Julie invece il dissidio non deriva da ostacoli esterni o da crisi interne, quanto piuttosto dalla sua presa di coscienza di ciò che vuole essere, dal rapporto tra sé e la relazione. Il film ammette l’esistenza di relazioni positive e tuttavia destinate a concludersi, e lo fa spiegandolo con dolcezza attraverso le vicende della protagonista.
È indicativo, infine, come sul finale compaiano assolutamente in secondo piano le mascherine chirurgiche, segnali del flash forward che chiude la narrazione. Il fattore smaccatamente esterno della pandemia viene interamente sottaciuto, a riprova dell’interesse per l’interiorità che governa la narrazione intera in cui un elemento così eccezionale distrarrebbe solamente.
Il finale, [spoiler] lieto per certi versi ma probabilmente contro le aspettative dello spettatore, è la conclusione soddisfacente della Bildung così faticata dalla protagonista. I titoli di coda, che scorrono accompagnati da Waters of March di Antônio Carlos Jobim, lasciano la stessa serenità liberante che Julie ha trovato.
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