
Everything Everywhere All At Once – Il multiverso e Tuttecose
Tutto Dappertutto Tutt’Insieme è la traduzione più letterale del lungo titolo Everything Everywhere All At Once; eppure, in italiano esiste una parola che, sola, esprime l’idea alla base di questo straordinario racconto. Una parola che, caso vuole, è anche il titolo di una canzone che narra un sentimento molto simile a quello del film del momento – o meglio, una mescolanza di sentimenti difficili da inquadrare, generati da situazioni semplici e allo stesso tempo profondamente esistenziali con cui ognuno, prima o poi, più o meno, si confronta: Tuttecose di Gazzelle.

Ai Daniels (il duo Daniel Kwan e Daniel Scheinert, che firmano insieme la pellicola) forse dovremo chiedere perdono per questo paragone, ma a chi ha una vena comparatista non sfuggono le somiglianze tra girato e canzone. In fondo, cosa è l’arte se non l’analisi della stessa idea e sentimento sotto chiavi di lettura diverse? Cosa è, se non l’espressione materiale del concetto stesso di multiverso?
Quello che fanno cantante nostrano e registi statunitensi è cercare di sbrogliare, attraverso medium diversi, una matassa di “tuttecose” così intricata che rischia di soffocarci. In Tuttecose, Gazzelle e Mara Sattei cantano: «Che bello starsene seduti sai / Noi due, una scia d’aereo, tutti muti / Shh / Mare, fammici stare bene / Dentro c’è tuttecose / Stiamocene io e te»; versi che sembrano tramutati lettera in fotogramma nella scena in cui la protagonista Evelyn e sua figlia Joy prendono forma di roccia in un universo parallelo. Le parole di Joy (anche conosciuta come male-e-amoralità-personificati in Jobu Tupaki) sono: «You can just sit here, and everything feels really… far away. […] Shh. You don’t have to worry about that here. Just be a rock.» In entrambi i casi, l’individuo si confronta con la pressione angosciante di un mondo che ci richiede uno sforzo sovrumano per vivere, contrapposta alla sola possibilità di esistere; senza tasse, senza aspettative, senza rimorsi dovuti a tutte decisioni che abbiamo alle spalle e che ci hanno portato in questo punto dell’infinito spazio-tempo.

Everything Everywhere All At Once mette in scena l’overthinking di un dramma strettamente familiare e umano. La teoria del multiverso dei Daniels è la resa fantascientifica del rimpianto; le milioni (miliardi) di Evelyn che esistono, rispetto alla “nostra” Evelyn hanno le risposte ai suoi dubbi: cosa sarebbe successo se non fosse partita per gli Stati Uniti? Se vivesse in un universo in cui le dita sono hot dog? Se non avesse sposato Waymond? Queste versioni del sé vivono indissolubilmente legate una all’altra, e quando scopriamo la loro esistenza – e cioè ci chiediamo cosa sarebbe oggi di noi, avessimo deciso di andare a sinistra invece che a destra – la prima reazione è la follia nichilista.
Difatti Joy, vera figlia di sua madre, appena sperimenta il multiverso tutto nello stesso momento cade nell’abisso della solitudine. Il peso di tutto, dappertutto e tutt’insieme è tale per cui si trova abbandonata a se stessa in mezzo a un caos interminabile. Si corrompe cercando di sfuggire agli assi di moralità del mondo, perché cosciente dell’esistenza di infiniti altri mondi e realtà, che rendono fondamentalmente inutili tutte le altre. Affossata in una vita impotente (che Gazzelle descrive come «un film, dentro un film, dentro un film, dentro una foto sbiadita»), Joy-Jobu vuole uscire dal senso di solitudine perenne rappresentato, molto millennialmente, dal buco di un bagel nero. L’inutilità della vita, le tuttecose che ha dentro e che non riesce a spiegare, sono al contempo inizio e fine del suo sconforto.

È in chiusura che si annida la differenza tra Gazzelle e i Daniels: il primo mette in musica il frammento di un’emozione; i secondi, invece, offrono una morale. Sì, la vita è inutile, senza meta, senza scopo. Vero, tutto sarebbe potuto andare diversamente e meglio. Siamo stupidi, piccoli, piccolissimi se paragonati all’universo, o al multiverso. Forse non c’è neanche un Dio, solo il buco di un bagel nero che è pronto ad assorbirci per sempre. Niente ha senso…
… Ma proprio per questo tutto ha senso.
Il significato ultimo della vita non è nelle cose straordinarie che facciamo e che resteranno ai posteri. Non è neanche nel trovare il significato stesso della vita, che non esiste. Ciò che ci resta è il presente immanente, la contemporaneità e le persone che la condividono con noi. È questo l’unico luogo e l’unico momento in cui possiamo trovare la gioia e la forza di volerci svegliare la mattina: la banalità dell’esistenza quotidiana. La serenità di condividere cose semplici e tediose come fare la lavatrice e compilare le tasse a fianco delle persone che si amano. La spinta che ci porta ad attraversare tutto il rumore della disperazione per cercare il sostegno del prossimo.
La vita stessa dà senso a tuttecose: a tutto, dappertutto, tutt’insieme.
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