
“È stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino – Se esiste un’autobiografia | Venezia 78
All’uscita dalla sala di È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino, in concorso a Venezia 78, qualcuno insieme a me non riusciva a staccare lo sguardo dall’ultima immagine del film accompagnata dalla celebre Napule è di Pino Daniele: Fabio (interpretato da un non eccellente Filippo Scotti), non più fabietto come usavano chiamarlo genitori e parenti, dietro il vetro di un treno con al collo il solito walkman si appresta a partire per la città del cinema, Roma, la città dove tutti sono strunzi, a detta del padrino cinematografico del regista napoletano, Antonio Capuano. Fabietto sembra quasi dissolversi dietro il finestrino, e insieme a lui si dissolvono Napoli, l’adolescenza, la famiglia, vera e cinematografica (gli interpreti si ripetono: Toni Servillo, Lino Musella, Teresa Saponangelo, Renato Carpentieri). Sembra concludersi un sogno, il fluire di una memoria sbloccata, come avvisano fin da subito il riferimento alla scena iniziale di 8½ e poi il saluto del monacello bambino alla stazione.
È stata la mano di Dio è l’autobiografia personalissima di Sorrentino, il suo dire addio (o un arrivederci) all’evento più traumatico della sua vita: la morte dei genitori nell’appartamento di Roccaraso. Ma non solo. Ho detto personalissima perché il film tratta gli altri due temi fondamentali per la formazione umana e artistica dell’autore: il calcio (Maradona e il Napoli in primis) e il cinema. Maradona corre per i tubi catodici di fine anni ottanta, nelle fantasie calcistiche di Fabietto – e si può dire di Paolo – e soprattutto dello zio che in un impeto di gioia osanna il gol di mano del calciatore argentino come un gesto rivoluzionario anti-imperialista; ugualmente il Napoli, lo scudetto dell’annata 1986-1987 rappresentano un mito che difatti muore con la morte reale dei genitori.

La fuga da Napoli significa fuggire dalla realtà, «scadente» come diceva Fellini, sostituirla con il cinema, l’immaginazione, qualcosa da raccontare, che si rivelerà poi essere il dolore di una memoria individuale legata alla città abolita nell’immaginario sorrentiniano da L’uomo in più in poi (o quasi). Roma e Napoli, dunque, oltre ad essere luoghi della crescita personale del regista, sono due storie possibili, quella romana già ampiamente sviluppata (La grande bellezza), quella napoletana ancora da scoprire (e ri-scoprire).
Nonostante il ritorno nella città partenopea lo stile di Sorrentino non sembra cambiato. Anzi appare in alcuni punti fossilizzato, incancrenito nei suoi stessi punti forti. Inclina verso il catalogo e non verso il flusso immaginativo de La grande bellezza; tenta diversi finali dopo l’accumularsi di saliscendi tragicomici, non sempre riusciti ma mai noiosi (al cinema ci si diverte, direbbe); rimane l’iperrealismo verso volti e gesti che nel nuovo sfondo napoletano assumono le sembianze di ricordi e sguardi dilatati (l’unica cosa che sa fare Fabietto è guardare), fermati nel tempo, come al cinema appunto; rimane la sospensione di giudizio su ciò che è vero e falso, su cosa vuol dire raccontare una verità (ma quale verità?) sul grande schermo.

Quel che cambia è sicuramente il tono, e così la scelta del genere. Nella prima parte del film si susseguono quadretti comici al limite del teatrale, mentre nella seconda e terza parte si fa spazio un dramma della giovinezza e dell’abbandono raccontato con inedita distanza, quasi che ad avvicinarsi al trauma, a ciò che ancora non è stato disvelato – alla memoria del trauma – si possa annegare nel mare del golfo napoletano. Sorrentino dalla prima persona è passato alla terza, narrando di sé, trasfigurando, aggiungendo battute tese a ribaltare le aspettative dello spettatore, manipolando visivamente e acusticamente il ricordo, tanto da mettere in dubbio la legittimità del termine autobiografia: quante battute, quante coreografie (poche rispetto al solito), quante carrellate frappone Sorrentino tra sé e il dolore, tra sé e la rappresentazione che ne vuole dare?
Il divertissement divagante raffredda la materia bollente della biografia, la allontana in una dimensione di non-esistenza. Sorrentino lo sa e in questa autoconsapevolezza – e autogiustificazione – convivono la sua grandezza e la sua debolezza. Forse si è esaurito un ciclo cinematografico ed esistenziale, e È stata la mano di Dio conferma i segni di questa crisi in modo esasperato, talvolta toccante, come un grido d’aiuto proveniente dal passato.
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[…] La mano di Maradona che segna il goal dell’86, la mano della provvidenza che bussa al portone di Roccaraso: “l’evento” traumatico come congegno cinematografico di memoria e azione e il cinema, “mano” artistica mediatrice del tragico e del divertissement. Quella di Sorrentino è autobiografia e non-autobiografia, un flusso non lineare di realtà e finzione che nel mito come paradigma temporale – Maradona, Fellini – trova consistenza. Un fossile mobile la Napoli di Fabietto, luogo intimo abolito dall’immaginario sorrentiniano e qui trasfigurato emotivamente. Cos’è l’autobiografia se non un ripensamento, una nuova visione? Cosa il cinema se non la grana fantasmatica della propria intima esperienza? Sandra Innamorato / Leggi la recensione […]
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