
Malcolm & Marie | Cuori infranti in meta-cinema
È un gioco di contrasti e opposizioni, Malcolm & Marie. Un cortocircuito di divergenze dicotomiche anticipate dallo stesso titolo, che mette in dialogo il mondo di lui – Malcolm – e quello di lei – Marie – in una guerra fatta di sfide senza vincitori o vinti, ma di lacrime e sudore, tenuti insieme dal fuoco del cinema. Quella del film diretto da Sam Levinson è una struttura visiva costruita su continui riflessi speculari che accecano, attirano e inglobano protagonisti e spettatori in una prigione domestica ampia e allo stesso claustrofobica. E quello di Levinson è – non a caso – un cinema che si riflette, supportato da una macchina da presa che ricerca tra i metri quadrati di un unico ambiente suoi eventuali surrogati domestici tra finestre, pertugi, specchi e cornici reduplicanti i confini della propria inquadratura. Doppi schermi capaci di dividere, e raccogliere in ogni loro elemento profilmico e filmico, battiti di due cuori egoriferiti che cercano, non sempre riuscendoci, di battere all’unisono.

E in questo schema in cui il cinema parla di sé, superando i confini del mezzo per abbracciare la questione sentimentale di una coppia che parla senza ascoltarsi e comprendersi, le finestre e le aperture decorative anticipano profeticamente una rottura annunciata. Quella che vivranno i due protagonisti è una scissione molecolare di due atomi che si riappropriano della propria unità per rinfacciarsi pensieri, rimorsi, accuse tenute sottaciute e sotto scacco per troppo tempo. Una divisione suggerita e poi enfatizzata da limiti fisici e fotografici che impediscono ai due di condividere i limiti di una stessa inquadratura, o perfino il bagliore di una luce che illumina il volto di uno, o l’ombra che avvolge quello dell’altra. Una divisione di intenti e pensieri suggerita dalle prime battute del film, con quel bianco e nero orfano di sfumature volto ad acutizzare quell’opposizione tanto cromatica quanto narrativa giocata su una sfida combattuta su due fronti senza vincenti né perdenti, ma solo amanti-nemici.
E così, anche quando riuniti in una stessa inquadratura, vi è sempre un ostacolo, o un gioco prospettico e/o prossemico a dividere e allontanare i due protagonisti. Il regista conosce la potenza sottesa delle scale dei piani, ma soprattutto sa quando sfruttare un primo piano nei momenti di contrasto verbale in cui le bocche ormai incapaci di trattenere un pensiero, o un dolore crescente, si aprono, passando poi a campi lunghi di occhi artificiali che si sostituiscono a quelli di spettatori pronti a soddisfare il proprio desiderio voyeuristico spiando discretamente e da lontano la frattura di una coppia hollywoodiana.

La sceneggiatura, scritta con approccio meta-filmico, dà voce all’eterna lotta tripartitica tra registi che affermano (mentendo) di non essere toccati dai giudizi altrui, chi i film li ispira senza per questo essere ringraziato, e chi un’opera la giudica, colpendo con la potenza di un inchiostro digitale, registi e attori. Dietro a cuori colpiti, mancanze e recriminazioni sentimentali, Malcolm & Marie parla del mondo a cui esso stesso fa parte, dell’essenza vitale che lo genera, sebbene avviluppato da legami e relazioni, e portato alla luce da quei schermi doppi e multipli fatti di superfici riflettenti che lo riverberano, rivelandone ogni segreto.

In questo gioco di opposti, un punto di forza va a ritrovarsi anche nella colonna sonora, strutturata su una compensazione perfetta e armonica tra silenzi, brani jazz, e urla a volte un po’ troppo caricate (dettaglio che porta spesso la performance di John David Washington in over-acting) che prendono a braccetto la componente visiva e la lanciano in un ballo sinuoso. E così nel corso di un litigio, dove Marie ascolta gelida un Malcolm mosso dall’auto-giustificazione, non c’è alcun bisogno di movimento di camera e nessun commento musicale ad acutizzare la profondità delle lame che entrambi infliggono nel corpo dell’altro con la stessa precisione e determinazione con cui Marie taglia il panetto di burro. La precisione del colpo prende la forma di parole taglienti, confessioni fino a un momento prima indicibili e relegate al cassetto più profondo del proprio subconscio da lanciare sullo schermo senza alcun dolce accompagnamento musicale. Al contrario, la preparazione a una nuova battaglia in questa guerra al massacro, si gioca su brani vibranti, coinvolgenti, supportati da un montaggio serrato e movimenti di macchina dinamici, vivi, fatti di panoramiche e carrellate.
Lo spazio domestico, da parte sua, non si limita al ruolo di silente spettatore, ma entra a gamba tesa in questo gioco alla dissezione sentimentale ed emotiva, elevando ogni oggetto, ombra, o semplice dettaglio, a elemento parlante, portatore visibile e tangibile di pensieri, allontanamenti e ritrovamenti. La casa moderna, culla di speranze e fucina di battiti d’amore, si tramuta in prigione che intrappola i due protagonisti, legati senza respiro a quell’esigenza di unirsi per salvarsi a vicenda, incapaci di uscire e scappare, se non dando sfogo a pensieri e rimorsi, abbattendo filtri e barriere difensive.

Malcolm & Marie è un film-confessione non perfetto, ma impeccabile nella sua struttura visiva e narrativa fondata da una visione di un regista abile nel mappare il visibile per entrare negli interstizi delle cose e cercarne sia le aporie, sia i vicoli ciechi di un rapporto bloccato in una struttura circolare pronta a ripetersi ad libitum.
Camminano a circolo, i due protagonisti, dentro e fuori casa, giocano a girotondo con le proprie parole e i propri sentimenti, per poi trovarsi sempre al punto di partenza sia fisicamente che sentimentalmente, senza cambiamenti, ma bloccati in un perpetuo status-quo.
E allora la trasparenza delle finestre, e le superfici riflettenti degli specchi si fanno acquario e palle di vetro imprigionanti il legame di due personaggi fragili, che sull’onda d’urto di un urlo cercano barlumi di speranza. Ma le superfici trasparenti della casa rimandano anche simbolicamente a un rapporto ormai saturo di non detti, e per questo pronto a portare pensieri repressi alla luce del sole.

Ma in un mondo fatto di contrasti, anche le due performance sono agli antipodi. Se l’interpretazione di Washington è un fiume in piena incontrollabile, spettro di un uomo incapace di auto-controllarsi (caratteristica che per certi versi giustificherebbe la sua performance, sebbene la capacità dell’attore di gestire i tempi e toni non è sempre centrata) che urla e gesticola spasmodicamente, quella di Zendaya è fredda, gelida nella sua pacatezza e solo apparente noncuranza. Dentro quegli occhi brucia un fuoco che getta zampilli ustionanti sotto forma di parole affilate come fendenti pronti a colpire dritti al cuore proprio perché pronunciate con calma e tremenda tranquillità. Le braccia tese, o incrociate, il nascondersi a pelo d’acqua nella vasca, sono piccoli gesti compiuti con naturalezza da un’attrice che si dona al proprio personaggio, facendosi odiare e allo stesso tempo capire. Una partecipazione affettiva che non riesce del tutto a stabilirsi con il personaggio di Malcolm proprio per questa esuberanza interpretativa che lo porta là, dove il critico più attento lo aspetta al varco prendendo la sua performance e facendola a pezzi, come una bocca che prende, assimila e digerisce un piatto di Mac&Cheese.

La meta-testualità di Malcolm & Marie ne fa certamente un film non per tutti e la sua struttura prettamente dialogica può a lungo annoiare gli occhi meno critici. Ma in fondo il cuore di questa coppia si sente lo stesso battere. È un battito cardiaco percepibile tra gli sguardi abbassati, o le parole sussurrate.
“Or it is because I believe that if you witness the trauma on screen the audience should also feel the fucking trauma. That is the mystery of story of film”. È in questa battuta che si concentra tutta la potenza meta-testuale che coglie lo sviluppo narrativo di Malcolm & Marie. Il trauma del sentirsi incompreso, tanto nell’arte quanto in amore, fuoriesce dallo schermo per colpire gli spettatori con un linguaggio universale.
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