
Suspiria – L’orrore secondo Argento
Dovunque sussurri e grida soffocate. Finestre dischiuse dal vento, una pioggia irreale che cade incessantemente. I titoli di testa non lasciano alcuno scampo allo spettatore, né alcuna facile via di fuga dallo spettacolo e dall’esperienza-esperimento cui si prenderà parte. Veniamo inchiodati attraverso un suono di ferraglia, d’incudini, sin dai titoli di testa: è «un film di Dario Argento». È Suspiria, la storia di Susy Benner, ragazza americana che decide di trasferirsi in Europa presso la scuola di danza di Friburgo, che nasconde null’altro che un covo di streghe. Il film, primo capitolo della «trilogia delle tre madri», è anche il primo esperimento argentiano vero e proprio nell’estetica dell’orrore sovrannaturale.
Se con Profondo rosso si aprono per la prima volta le porte all’orrore, è certamente l’elemento sovrannaturale a mancare. L’articolazione di una trama e di un intreccio basato su un meccanismo razionalistico non ha nulla a che vedere con quello che sarà un esperimento post-moderno del cinema dell’orrore come Suspiria. La sintassi maggiormente libera apre le porte alla dimensione onirica e alla spettacolarità. L’uso espressionistico del colore di Luciano Tovoli trasfigura il reale (tendenza portata in seguito all’estremo da Bava nella seconda pellicola della trilogia delle tre madri, «Inferno»). L’assassino con guanti di pelle e dal viso coperto che si serve delle più svariate armi da taglio per compiere i suoi omicidi (si vedano tutti i gialli di Argento) è qui insondabile, non più riconducibile ad un soggetto psicopatologico: l’orrore si manifesta in quanto altro, inumano. E la conversione dal thriller all’orrore è sintetizzata perfettamente dal rapporto tra l’uomo e l’animale. Nel primo l’uomo predomina: la lucertola si dimena dopo essere stata trafitta da spilli (Profondo Rosso). L’orrore è invece il cane fedele da sempre al proprio padrone, che da un momento imprecisato decide di cibarsene (Suspiria).
Altro tema cruciale nella pellicola è la comunicazione. Suspiria è un gioco sull’incomunicabilità. Le prime parole che vengono pronunciate dalla protagonista non vengono comprese dall’autista. La porta dell’accademia non le viene aperta, perché non viene riconosciuta. Il sonno, quasi comatoso, interrompe il dialogo tra lei e Sara. Si potrebbe aggiungere l’utilizzo stesso della musica, che sovrasta l’immagine e talvolta anche il parlato, impedendo così una comunicazione tra il film stesso e lo spettatore. L’eccezione risolutiva è data dalle parole dapprima «incomprensibili», in seguito simboli-chiave («l’iris blu») per l’apertura di un mondo sotterraneo che permetterà di trovare ed uccidere la strega Helena Markos, Mater Suspiriorum.
L’architettura ha un ruolo chiave nella caratterizzazione della pellicola, nonché in tutto il cinema di Argento, il quale ha sempre dimostrato di ispirarsi a disparate forme d’arte per fare cinema (la pittura, la musica e l’architettura per l’appunto). La forma squadrata e imponente dell’edificio, nonché le insidie che le sue porte racchiudono, contribuiscono in maniera perfetta allo spaesamento della protagonista. Gli spazi della struttura sono, tra loro, «vasi non comunicanti»: la stanza vicolo-cieco adibita solo a conservare fil di ferro, come se questa fosse stata progettata (o meglio, animata) con il solo scopo di fare del male. Infatti «Le streghe fanno il male. Nient’altro al di fuori di quello» ed inoltre hanno «il potere di agire sulla realtà, ma solo in senso maligno. Il loro scopo è ottenere vantaggi materiali e personali ma possono raggiungerli esclusivamente con il male degli altri».
Ciò che non può lasciare indifferenti in Argento è la capacità e la verve razionalistica che impone al suo cinema, l’indiscutibile freddezza tecnica dell’occhio-macchina da presa che punta contro i suoi personaggi. Nemmeno quando questa diventa «orecchio» nel momento in cui ascolta i segreti che questi si confidano, lo si può considerare empatica. C’è qualcosa nella sua freddezza che nasconde come una malsana crudeltà, come a presupporre un tradimento. E la scelta è peculiare o quantomeno distintiva rispetto agli altri «autori» del genere. L’uso dello zoom è millesimato, e qui la macchina da presa gioca costantemente a «dissumulare la soggettività»; non siamo più l’assassino, né il protagonista del film. Siamo solamente spettatori inermi.
Di lì a poco Suspiria eserciterà una forte influenza sugli epigoni. Lucio Fulci citerà più volte Argento nelle sue pellicole, pur mantenendo una propria impronta autoriale. Si pensi però a quanto siano debitori a questo film registi come Guillermo Del Toro, N.W. Refn, Gaspar Noe, e non ultimo Luca Guadagnino che ne ha diretto un discusso remake. In Italia nessun altro regista di genere, prima di Dario Argento, è stato riconosciuto come Autore vero e proprio dalla pressoché totalità degli spettatori, più o meno attratti da passioni cinefile. E la conseguente popolarità di Suspiria risiede proprio nel trattare un tema universale in una chiave unica e personalissima. Il film mette in scena le credenze che l’uomo porta con sé a partire dal giorno della propria nascita: l’attenzione alle pieghe del magico che il mondo sottende, poiché, come detto dal professor Milius la magia è ciò che «quoddam ubique, quoddam semper, quoddam ab omnibus creditum est» ovvero «è quella cosa che ovunque, sempre e da tutti è creduta».
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