
Logica del chiaroscuro – Frankenstein alle radici dell’horror
“Buonasera. Il signor Carl Laemmle ritiene che non sia opportuno presentare questo film senza due parole di avvertimento: stiamo per raccontarvi la storia di Frankenstein, un eminente scienziato che cercò di creare un uomo a sua immagine e somiglianza, senza temere il giudizio divino. È una delle storie più strane che siano mai state narrate, tratta dei due grandi misteri della creazione: la vita e la morte”.
Questo è quanto viene pronunciato nei primi minuti dell’originale Frankenstein di James Whale, da parte di un attore secondario del film che, in smoking, riferisce al pubblico un messaggio del produttore. “Penso che vi emozionerà”, continuava a dire il messaggero, “forse vi colpirà, potrebbe anche inorridirvi! Se pensate che non sia il caso di sottoporre a una simile tensione i vostri nervi, allora sarà meglio che voi… be’, vi abbiamo avvertito!”. Se tuttora quest’incipit appare sorprendente e un po’ straniante, promessa e garanzia allo spettatore di un orrore che poi effettivamente si incontrerà, l’audience che per la prima volta lo ascoltò nel lontano 1931 dovette essere non poco allarmata.

È difficile dire quanto questa premessa sia dettata dalla volontà di avvertire il pubblico rispetto alle scene “dell’orrore” che di lì a qualche minuto avrebbe iniziato a vedere – profanazione di cimiteri, il ritorno alla vita di un uomo costruito con pezzi di cadaveri diversi, omicidi vari e sempre crudeli – e quanto invece fosse il primo tassello di una studiata costruzione della tensione: fatto sta che il Frankenstein ha spaventato come pochi film nella storia del cinema e, a differenza di altri titoli del canone horror di quel periodo, sa spaventare tuttora.
Tratto dall’omonimo ed epocale romanzo con cui la giovane scrittrice Mary Shelley aveva esordito nel 1818, Frankenstein racconta la storia di uno scienziato, Henry (Colin Clive), che nel suo castello tra le Alpi bavaresi è convinto di aver trovato un modo per rianimare un corpo umano morto. Quando, assistito dal gobbo Fritz (Dwight Frye), Henry riesce a portare a termine il suo esperimento, la creatura che ne (ri)nasce non tarda a rivelarsi un vero e proprio “mostro”, che uccide tutte le persone che gli stanno attorno fino a minacciare l’intero villaggio dove vivono i Frankenstein.

Con il Frankenstein di James Whale si va davvero alle radici dell’orrore. Non che fossero mancati dei proto-film horror, nei tre decenni e mezzo che separavano la pellicola con Boris Karloff dall’invenzione del cinema da parte dei Lumières: il cinema muto si era sprecato nel mettere in scena soggetti tratti da Poe o da Hoffmann, e lo stesso Frankenstein di Mary Shelley aveva subito una prima riduzione nel 1910, in un cortometraggio muto suggestivo e straniante nella sua brevità. Inoltre, la messa in produzione del Frankenstein da parte dell’Universal fu conseguenza diretta e dichiarata del successo di un altro horror, forse il primo grande horror parlato di matrice americana, il Dracula di Tod Browning interpretato da Bela Lugosi.
Il fatto è che con Frankenstein l’orrore trova una definitiva forma cinematografica – una sua specificità. Precedenti esperimenti, provenienti soprattutto dall’ambito dell’Espressionismo tedesco, erano ancora molto legati a un impianto teatrale. Giocando molto anche con il sonoro, che da pochissimi anni era arrivato al cinema, con il suo Frankenstein James Whale ha saputo creare un codice e un immaginario puramente cinematografici – rivolgendosi al tempo stesso alle radici di quella che è l’esperienza umana del terrore, quella da cui sgorgano tutte le religioni, forse la civiltà stessa.

Il cinema dell’orrore mette sempre in scena le nostre paure. Con l’evolversi del genere, che peraltro si fondava su una base quantomeno secolare di racconti e romanzi dell’orrore che in Shelley, in Poe e in Lovecraft trovava una sorta di trinità fondatrice – con l’evolversi del genere queste paure si sono codificate, e hanno preso forma in figure che si riconoscono con un colpo d’occhio, i classici baubau, assassini mascherati, vampiri affascinanti e alieni mutaforma dei quali, sinceramente, non abbiamo paura nella nostra quotidianità. Il codice è diventato un meta-codice: fa paura ciò che si è visto in film precedenti, e ci ha fatto paura.
Anche il mostro di Frankensteinè diventato un baubau, e dal 1931 di James Whale alla recentemente annunciata La moglie di Frankenstein scritta da David Koepp è forse il personaggio cinematografico che ha subito più sequel, remake, rifacimenti apocrifi, reincarnazioni posticce e anche una gustosissima parodia quale fu Frankenstein Junior. Ma il Frankenstein originario di James Whale era ancora immune da questo parossismo meta-, e pur incarnandole nella figura di un mostro che è diventato icona pop, si rivolgeva direttamente e senza fronzoli alle nostre paure, e a quella specifica paura che poteva accomunare le platee del 1931 post-Depressione ai solitari spettatori che nel 2021 se lo recuperano su YouTube.

Nei migliori dei casi, il cinema horror ci mostra ciò che la società un po’ freudianamente rimuove – ma, ancor più della sessualità, il vero, grande rimosso è la morte, e il film di cui stiamo parlando è tutto “una grandiosa festa di morte”. Senza mettere in scena il mostruoso del quotidiano – quello sarebbe stato compito nei decenni successivi dell’Esistenzialismo in letteratura e di Francis Bacon in pittura – il Frankenstein di James Whale ci mostra un uomo lottare direttamente contro la nostra paura più grande e ineliminabile, la nostra paura più fondata, per fallire miseramente: riesce a sconfiggere la morte, ma la prova, il risultato di questa sua vittoria è una macchina per uccidere, che minaccia la vita del suo creatore e di tutti i suoi cari. Meglio allora non tirare fuori gli scheletri dall’armadio, e lasciar riposare ciò che è venuto meno alla vita: Frankenstein è senza dubbio una cautionary tale, ma molto più intelligente e spontanea di ogni altra storia “con la morale inscritta”.
Il mostruoso peraltro, e soprattutto il mostruoso esposto in Frankenstein e incarnato da quella maschera che fu Boris Karloff, corrisponde a una fine, un esautorazione, un rovesciamento o un’indifferenziazione – termini che in questo caso si equivalgono – delle categorie alla base del nostro pensiero, del nostro interagire teoreticamente con il mondo: il mostro di Frankenstein non è né vivo né morto, sconvolge anche la bipartizione tra organico e inorganico, mette in crisi anche il principium individuationis, composto com’è da pezzi di cadaveri di diverse persone ignote, con il cervello di un criminale. Sono state più volte tentate interpretazioni in chiave lacaniana di Frankenstein, più libro che film a dire il vero, e la direzione è indubbiamente quella: quelle rare volte che funziona davvero, e il Frankenstein di James Whale è indubbiamente una di queste, il cinema dell’orrore ha una forza eversiva unica, non solo sociale – il che spiega in parte lo stigma con cui questo genere di produzione sono state spesso accolte in ambito censorio, istituzionale e genitoriale -, ma anche cognitivo, gnoseologico. Una suggestione: quest’indifferenziazione, questa totale messa in discussione delle nostre categorie cognitive fondamentali che Frankenstein e (pochi) altri film dell’orrore operano – questo salto in avanti e parimenti questa regressione concettuale prima e dopo ogni categoria si sposano bene con la splendida fotografia del film, a firma di Arthur Edeson, tutta giocata sui chiaroscuri.

Cos’è Frankenstein di James Whale in fondo? L’esito ultimo che al tempo stesso ha sancito la fine dell’Espressionismo tedesco? L’inizio effettivo e inevitabile dell’horror come genere cinematografico? Una parodia dell’incapacità maschile di generare? Un assalto al fondo escatologico di ogni paura umana, la Morte, e l’esorcismo negativo di quella idea di resurrezione che bene o male, quantomeno come speranza, ha caratterizzato l’immaginario occidentale degli ultimi due millenni? E il primo Frankenstein potrebbe attirare su di sé ancora ulteriori significazioni. La creatura di Boris Karloff può essere legittimamente interpretata come una curiosa sagoma che ha saputo anticipare le caratteristiche essenziali di quello che molti – troppi? – definiscono il nostro tempo post-moderno, composto tutto da cadaveri e simboli delle decadi passate, incapace di partorire il nuovo?
Ancora non risulta che nessuno abbia voluto evidenziare il fatto che il regista James Whale fosse stato uno dei primissimi gay dichiarati nell’industria cinematografia hollywoodiana, tanto da ricevere l’appellativo denigratorio di “reginetta di Hollywood” – ed era stato il suo compagno David Lewis a suggerirgli di provinare Boris Karloff per la parte del mostro, dopo averlo visto in un film di Howard Hawks. In che modo questo vissuto di estraneità sicuramente provato da Whale, questo vissuto di motteggio e di vera e propria persecuzione, potrebbe aver influito sulla caratterizzazione del mostro interpretato da Boris Karloff?

La verità è che nel Frankenstein di James Whale il mostro non è mai solo un mostro. È questa la grande lezione della pellicola, che tutti i successivi Frankenstein non hanno capito – era del resto anche la grande intuizione di Mary Shelley, che solo il Frankenstein di Kenneth Branagh degli anni novanta ha saputo restaurare, complice la sua impostazione filologicamente rispettosa nei confronti del romanzo originale.
Nel film di James Whale, che pure si discosta parecchio dal libro della Shelley al di là del suo nucleo fondante, la creatura di Boris Karloff lascia trasparire più volte momenti di umanità, di fragilità, soprattutto nella scena dal finale agghiacciante con la bambina – ma anche in quella scena, in cui l’uccisione finale è frutto di un equivoco cognitivo, emerge chiaramente la ricerca di un contatto umano. Inseguire il mostro con fiaccole e forconi, con l’intenzione fin troppo girardiana di commettere il linciaggio collettivo di un capro espiatorio, chiaramente non coglie queste finezze della “creatura” – si preoccupa solo di respingere il mostro ai confini dell’abitato, per poi bruciarlo vivo.

L’Illuminismo, con Goya, aveva sancito che “il sonno della ragione genera mostri”. Il romanzo della Shelley, scritto e pubblicato nel 1818 quando l’eco della Rivoluzione Francese era tutt’altro che sopita, dimostrava come anche un eccesso di ragione, di tecnica e di scienza medica potesse generare le sue mostruosità. Più di un secolo e mezzo dopo, un pensatore più supino come Emil Cioran avrebbe messo da parte le cautele e ogni decisiva separazione tra un noi-normale e un esso-orrido, quando scriveva, ne La tentazione di esistere, “un mostro, per quanto orribile sia, ci attrae segretamente, ci perseguita, ci ossessiona, rappresenta, ingigantiti, i nostri privilegi e le nostre miserie, ci proclama, è il nostro portabandiera”. Il nostro portabandiera: in un periodo storico come il nostro, in cui il discorso sulle differenze si è a sua volta polarizzato, e la richiesta di un riconoscimento dell’identità individuale in ogni campo ha raggiunto un interessante parossismo, film come il Frankenstein di James Whale sanno ancora squarciare lo schermo e rivolgere un testa-a-testa contro le nostre sicurezze. Sia quando il mostruoso lo si respinga come estraneo, sia quando lo si cerchi, incautamente, di accoglierlo senza intermediazioni.
“Io sono un mostro e tu chi sei?
Come ti chiami, come stai?
Vorrei parlarti ma è impossibile”
Baustelle, Il minotauro di Borges
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[…] de Palma, 1976), Il silenzio degli innocenti (The Silence of the Lambs, Jonathan Demme, 1991), Frankenstein (James Whale, 1934), L’ululato (The Howling, Joe Dante, 1981), fino ad arrivare a quello che […]