
Tod Browning – La mostruosa umanità degli esclusi
Pensarsi “normali” in questo mondo è impossibile. Rifugiarsi nell’idealizzazione di ciò che vediamo risulta essere molto più facile per sfuggire al terrore di osservare la nuda e violenta realtà dell’universo degli esclusi. La potenza del mito, d’altronde, si è sempre rivelata un efficace meccanismo di difesa nei confronti di ciò che veniva – e viene – considerato come diverso.
Gemelli siamesi, donne barbute, donne cannone, nani, microcefali e mutilati sono inseriti all’interno di quel gruppo comunemente inteso come “Freaks of nature” – abbreviato in Freaks – tradotto letteralmente come “scherzi della natura”. L’autentico Freak trovava rifugio in luoghi circoscritti – per sfuggire allo sguardo del “normale” – come i circhi, le fiere, i cosiddetti “freak shows” assumendo il ruolo di fenomeno da baraccone che suscitava compassione ed una perversa ammirazione nello sguardo del pubblico. Nel secolo scorso però questa prospettiva è drasticamente cambiata: i freak shows e i racconti popolari hanno ceduto il passo alla sala cinematografica, luogo sicuramente più efficace per tramandare il mito del diverso e molto più crudele nel rappresentarlo.

«La carne è diventata ombra» affermava il critico letterario Leslie Fiedler; il cinema si è impossessato di quei corpi diversi restituendoceli privi di spessore, come semplici oggetti da osservare incuriositi. A questo punto è inevitabile porsi alcune domande: che cosa succede se questi “mostri” vengono dotati di qualità umane? Esiste veramente una differenza e una gerarchia tra ciò che viene considerato mostruoso e ciò che viene considerato normale?
La risposta ai suddetti quesiti può essere trovata nelle lugubri – e spesso dimenticate – opere di Tod Browning.
Nato a Louisville nel Kentucky, il futuro regista è ossessionato dal circo sin da bambino. Intorno ai sedici anni Tod scapperà di casa per unirsi ad una compagnia circense lavorando come clown e come illusionista. Da questo universo si distaccò per approdare, a partire dal 1917, nel mondo del cinema, prima come attore e poi come regista, ma nella sua produzione cinematografica il Circo occuperà sempre un ruolo fondamentale.
La carriera di Browning arriva al suo apice tra il 1923 e il 1930, periodo in cui realizzò le sue opere migliori quali The Road to Mandalay (1926), The Unknown (1927) e West of Zanzibar (1928). Dopo questo periodo aureo, nonostante il grande successo commerciale di Dracula (1931), la sua carriera comincia a declinare a causa di alcuni fattori tra cui la morte del suo attore feticcio Lon Chaney e il clamoroso flop di Freaks (1932), il suo film “maledetto” tuttora più conosciuto e ammirato.

Spesso le sue opere vengono erroneamente etichettate come degli elogi al mondo circense o teatrale, ma in realtà la grande particolarità del suo cinema consiste in una forte de-erotizzazione di quello che viene banalmente percepito come un perverso divertimento: il circo per Browning è un pretesto, uno sfondo cristallizzato nelle sue classiche inquadrature statiche che lascia spazio allo svolgimento di vere e proprie tragedie. I freaks presentati da Browning non sono passivi “fenomeni” da ammirare, ma entità che nascondono dietro il loro ruolo manifesto una sofferenza che si tramuta quasi sempre in vendetta verso la banalità e la violenza dei “normali”.
In The Uknown (1927), per esempio, Alonzo si amputerà le braccia per amore di una donna che non sopporta le mani degli uomini; superata la paura, la donna si innamorerà di un uomo forte e integro instillando nel protagonista la volontà di vendicarsi del rivale. Nella terrificante sequenza finale di Freaks (1932), i mostri si riapproprieranno della loro dignità riversando sugli unici personaggi “sani” la propria ira.

La riflessione di Browning è dunque costantemente incentrata sul fragile ruolo di chi vive ai margini del mondo, un’indagine mirata su una spinosa problematica che attraversa secoli e generazioni risultando estremamente attuale. Categorizzare il lavoro del regista come il banale frutto di un “artista maledetto” è riduttivo perché rischia di oscurare la straordinaria lucidità e lungimiranza dei temi trattati. La modernità di Browning si estende, d’altronde, anche ad una fredda e studiata messa in scena così come ad un mélange di generi che oscilla tra il melò, il gangster movie e l’horror, spesso volutamente confusi tra di loro.
Nella vasta produzione cinematografica contemporanea alcuni autori si sono rivelati essere degli “eredi” ideali della sua poetica: pensiamo per esempio a David Lynch e alle sue “anarchitetture” filmiche popolate da umani mostruosamente fragili, ed a Tim Burton il cui cinema vede la presenza di mostri umanamente disperati. Le opere di Browning risultano dunque essere delle gemme dimenticate del cinema dell’orrore, dotate di una forte spinta rivoluzionaria in cui la realtà, la magia e la sofferenza vengono delicatamente orchestrate in un moto mistificatore, abbattendo ogni frontiera tra l’osservato e l’osservatore, tra il mostruoso e il normale.
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