
Scream – Wes Craven e l’avvento del metahorror
Woodsboro, Texas. Casey Becker ha in programma di passare una serata tranquilla, in casa da sola, con un film alla televisione e una scodella di popcorn: improvvisamente, riceve una chiamata da uno sconosciuto che, dopo averla terrorizzata con un quiz sui film dell’orrore, irrompe in casa sua e la uccide. Con questa sequenza, entrata a far parte dell’iconografia del cinema horror, si apre Scream, uscito il 18 dicembre 1996, per la regia dell’indimenticato Wes Craven.

Sin dall’inizio, il film si pone come un tipico slasher (dal verbo inglese “to slash“, squarciare, sfregiare), sottogenere horror che raccoglie sotto la sua definizione tutte le saghe che vedono come protagonista un serial killer – dal Michael Myers di Halloween (John Carpenter, 1978) al Freddy Krueger di A Nightmare on Elm Street (Wes Craven, 1984), passando dal Jason Voorhees di Friday the 13th (Sean S. Cunningham, 1980). Ma cosa rende Scream (e i suoi seguiti) così originale?
Il messaggio di critica posto da Craven e soprattutto da Kevin Williamson, autore della sceneggiatura, è rivolto non tanto nei confronti della nuova classe sociale dei giovani che si rifugiano nelle nuove tecnologie, nei consumi e nelle forme di intrattenimento del passato, quanto ai tradizionalisti delle vecchie generazioni, gli “adulti” che danno al cinema e ai nuovi media la colpa di deviare le menti dei ragazzi: ne è un esempio, tra tutti, il personaggio del preside Himbry, che in una scena fa la paternale a una coppia di studenti colpevoli di aver terrorizzato i compagni con lo stesso costume dell’assassino. Il dirigente è interpretato non a caso da Henry Winkler, il good bad boy Fonzie di Happy Days – ruolo che viene preso in giro non solo dalle parole taglienti del preside contro i “delinquenti” dello stesso stampo di Fonzie, ma a cui si fa riferimento con l’inquadratura di un giubbotto di pelle nell’armadio dell’ufficio del preside.

Tuttavia, rispetto al sottile lavoro di critica sociale, sono proprio gli elementi che rendono Scream un classico slasher a risaltarne l’importanza. Troviamo, quindi, i tropes ricorrenti del genere: uno spietato serial killer in maschera (qua ispirata all’Urlo di Evdard Munch), una strage di liceali, la first, second e final girl (rispettivamente la prima vittima, la seconda e la protagonista che sopravvive, in questo caso l’eroina Sidney Prescott, interpretata da Neve Campbell) e l’inevitabile colpo di scena finale.

Si può anche considerare Scream come un horror atipico, soprattutto per la sua capacità di assumere tratti autoriali (e autoreferenziali) che possono essere donati solo da un maestro dell’horror come Wes Craven. Infatti – a 25 anni dalla sua uscita – se l’effetto “destabilizzante” di terrore raccapricciante tipico degli horror va inevitabilmente perdendosi, la “strategia della tensione” rimane invece ancora viva e capace di incutere angoscia nello spettatore: è per questa ragione che Scream è un film perfetto sia per i cultori del genere, che si ritroveranno soddisfatti dall’uso dei tropes, sia per i nuovi appassionati o chiunque voglia iniziare ad approfondire il filone slasher senza sapere bene da dove iniziare. Insomma, non c’è da aver paura di ritrovarsi la classica pellicola cult invecchiata male.
A far contenti i cultori più esperti sono inoltre i numerosi riferimenti cinefili al mondo del cinema e ai pilastri del genere horror, richiamati in primis dall’assassino e in seguito dall’impacciato Randy Meeks (interpretato da Jamie Kennedy), uno degli amici di Sidney, impiegato in una videoteca. Famoso è il suo avvertimento: «C’è una formula standard, sono tutti sospettati!» e le sue regole per sfuggire a qualsiasi potenziale assassino nei film: mai fare sesso, mai assumere alcol o droga («estensione naturale del numero uno») e mai dire “torno subito”, perché non si ritornerà vivi.

La scream queen per eccellenza Jamie Lee Curtis appare per una buona parte della durata del film, al pari di una comparsa, visto che Halloween è il film che rimane in sottofondo per tutta la durata della festa che si trasformerà in massacro; Non entrate in quella casa (Prom Night, Paul Lynch, 1980), invece, è il classico che i poliziotti dovrebbero vedere per essere educati a trattare con un serial killer, secondo Randy.
E poi Carrie (Brian de Palma, 1976), Il silenzio degli innocenti (The Silence of the Lambs, Jonathan Demme, 1991), Frankenstein (James Whale, 1934), L’ululato (The Howling, Joe Dante, 1981), fino ad arrivare a quello che può essere considerato il primo slasher della storia: Psycho (Alfred Hitchcock, 1960). I riferimenti sono talmente evidenti da trasformarsi in parallelismi, come avviene nella scena di intimità tra Sidney e il fidanzato Billy, che sembra riempire i buchi della scena di sesso di Halloween che gli amici dei due stanno guardando al piano di sotto.

Anche dal punto di vista il montaggio scattante riesce a tenere sul filo del rasoio lo spettatore (tanto immerso quanto lo sono le vittime: a chi piacerebbe ricevere una chiamata da uno sconosciuto che dice di osservarci dalle nostre stesse finestre?), alle inquadrature inclinate che lasciano vagamente intendere che qualcosa stia andando sempre storto, fino ad arrivare alla fotografia che ci dona un sangue rosso vivo che non si vedeva dai tempi di Suspiria (Dario Argento, 1977) e alla colonna sonora di Marco Beltrami che dona un azzeccato stinger – ovvero, un’improvvisa esplosione sonora – per ogni picco di tensione narrativa. Il tutto viene orchestrato da un pulitissimo lavoro di regia che, più che inventare un genere nuovo, vuole rielaborare passo a passo tutte le componenti che hanno reso grandi i suoi predecessori e, allo stesso tempo, omaggiare quel genere tanto amato in forma di lettera d’amore.
Sarà interessante a scoprire, a questo punto, se questi nuovi ma vecchi canoni verranno rispettati nel prossimo capitolo della saga, programmato per il 2022, che vede il ritorno non solo della talentuosa Neve Campbell nel ruolo di Sidney, cresciuta e agguerrita, ma anche di Courteney Cox nel ruolo della graffiante giornalista Gale Weathers e di David Arquette in quello del poliziotto Linus Riley. Soltanto il tempo lo potrà dire. Perché, in fondo, «i film non fanno nascere nuovi pazzi, li fanno solo diventare più creativi».

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