
Il Buco – Visioni a 700 metri sotto terra | Venezia 78
In soggettiva, a pochi metri di profondità dalla bocca dell’Abisso del Bifurto, guardiamo il mondo esterno dalla cornice naturale del “buco”, ingresso della grotta situata sulle pendici del Pollino e ulteriore cornice visuale per noi spettatori, coinvolti immediatamente in un esperimento immersivo che provoca a tal punto la natura del digitale da non aver bisogno di strumentazione da virtual reality. È di “reality” che in fin dei conti si occupa Michelangelo Frammartino fin dal suo primo lungometraggio (Il Dono, 2003), un lavoro sul reale che fino al più recente Alberi (2013) fa della macchina da presa uno strumento di contatto, un canale di accesso e comunicazione tra spettatori e mondo, esponendo, quasi fino a renderla tangibile sullo schermo, l’immagine delle cose. Nel suo terzo lungometraggio, Il Buco, in concorso al Festival di Venezia nella categoria Venezia78, il regista calabrese conduce la macchina da presa fino alle più cupe profondità della grotta del Bifurto, un viaggio verticale lungo 700 metri per esplorare il perimetro del sottosuolo in quanto costante fuoricampo, zona inaccessibile ad occhio umano cui il regista tenta di conferire visibilità attraverso l’occhio meccanico della sua Sony Venice 6k da 5kg.

Seguendo le tracce di un gruppo di speleologi piemontesi che nel 1961 attraversarono la penisola per discendere fino nelle viscere delle montagne calabresi, Michelangelo Frammartino documenta lo scarto qualitativo tra micro e macro-mondi, l’abisso economico che separava Nord e Sud Italia negli anni del boom, in primo luogo, così come la luce naturale che illumina l’illimitata distesa di verde delle pendici del Pollino e il buio del budello roccioso sotto la sua superficie. La struttura antinomica è nel cinema di Frammartino tutta immagine. Dalle raccolte di repertorio che riprendono il funzionamento del sistema di pulizia delle vetrate del grattacielo Pirelli a Milano – proiettate sul televisore del Bar Sport del paese – ai campi medi e lunghi sul lento ritmo della natura scandito da un pastore col suo gregge, testimone oculare dell’accampamento speleologico. All’antinomia sul tempo segue quella proporzionale sullo spazio: gli illimitati panorami su cui indugia il regista, illudendo il nostro occhio di poter governare un campo visivo senza i limiti dello schermo, si alternano al limitato visus nei cunicoli della grotta.
Frammartino fa propri tutti gli strumenti dello slow cinema per convertire la realtà in una superficie interattiva. Nel Buco la grana digitale è esposta a tal punto allo spettatore nella durata che il suo contatto con la superficie dello schermo cambia. Nel tentativo costante di dar vita ad una sorta di nuova “metafisica della medialità”, di riattivare un rapporto differente tra le immagini in quanto media e gli spettatori, Framartino individua nello spettro del materiale etnografico il suo oggetto privilegiato, il soggetto più fotogenico a lunga durata. La prossimità ricreata, nonostante l’inalienabile distanza tra lo spettatore in sala e le strettoie del buco, i suoni, i rumori della grotta, le luci delle lampade sui caschi degli speleologi, unici indizi del volume di questo marmoreo gigante verticale, fanno delle immagini non semplici veicoli inanimati tra la sala cinematografica e il Bifurnio, ma messaggeri attivi, tecnologia risemantizzata nel suo privilegiato ruolo di “visore” e traghettatore in luoghi e momenti altrimenti privi di coinvolgimento. Al contatto leggero con le immagini, fruite senza prendervi parte, Framartino sostituisce dunque un contatto immersivo: lo spettatore “entra” nel film, nella grotta, ne avverte la claustrofobica dimensione e ne può rappresentare la geografia.

Quella speleologica è per il regista una vera e propria missione di rappresentazione, cartografica in senso proprio – nelle bellissime immagini che raffigurano gli ultimi metri della grotta disegnati a mano dallo speleologo – ma “cartografica” anche perché percorsa come carta geografica dallo spettatore nel tentativo di embodiment offertogli da Frammartino. La rappresentazione, la visione, obiettivi primi ed ultimi di tutto il lavoro del regista calabrese, convogliano tutti nel Buco, una ridiscesa in quella che è a tutti gli effetti una caverna platonica dentro cui introdurre un sistema elettrico che la smarchi dalla sua inaccessibile natura e, di rimando, l’involucro sterile della lanterna cinese non illuminata, del proiettore cinematografico non ancora azionato.
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