
Dove vanno i vecchi dèi che il mondo ignora? – A terra in ignem | Torino 40
[Plus de la tête le ciel, en dessous de les pieds l’enfer.]
Dove vanno i vecchi dèi che il mondo ignora?, presentato nel concorso dei documentari italiani al 40esimo Torino Film Festival, costituisce una piacevole sorpresa audiovisiva. Attorno a un cono di pietra dal quale sfociano lava e scintille s’inseguono i fantasmi degli esploratori che ne hanno raggiunto la cima. Ma la terra è deserta; la sassaglia brulla e nera dell’Etna è inospitale, e mozza il fiato di chi arrischia l’ascesa verticale verso il cielo. È un’esperienza religiosa, innanzitutto. Ma è anche una sfida verso sé stessi e il ritmo bubbonico del mondo contemporaneo, dove l’industria strappa la pietra dalle pendici del vulcano e la trasforma in piccole lastre nere – il ricordo lontanissimo della stele kubrickiana, caduta dal cielo fra un manipolo di scimmie adoranti; o la metamorfosi contemporanea del mestiere divino di Efesto. Alle spalle di ciò si intuisce un domandarsi che da Pavese si traduce nel tempo, fino a valicare lo stretto di Messina e a sfiorare il vulcano siculo: «Ti sei mai chiesto dove vanno i vecchi dèi che il mondo ignora? Perchè sprofondano nel tempo, come le pietre nella terra, loro che pure sono eterni?». I Dialoghi con Leucò aprono un varco fra la poesia e la materia – ed è attraverso questo varco che Giuseppe Spina e Giulia Mazzone, ricercatori visuali, promotori della sperimentazione artistica e fondatori di Nomadica, traducono in immagini un viaggio dentro e fuori i confini della realtà.

Dove vanno i vecchi dèi che il mondo ignora? è il risultato di un ibridismo equilibrato di forme, di un gioco dell’immagine che si traduce di volta in volta in scienza o poesia. Le parole di uno scrittore francese che aveva tentato la scalata dell’Etna nel 1835, «con un gruppo di uomini, due muli e una bottiglia di rum», trovano un corrispettivo nelle analisi particellari di uno scienziato dedito all’individuazione delle cristallizzazioni delle rocce e allo studio della loro microstruttura. Un movimento verso l’alto, quello dello scrittore-scalatore, e un movimento verso il basso, quello dello scienziato. Ne risulta una progressione a specchio che ricorda – per la sobrietà, per la precisione, per l’aura che emana – quel contrasto che ne Il buco di Frammartino si verificava fra la verticalità dei grattacieli milanesi degli anni Cinquanta e la penetrazione della Terra, la fossa infinita, la ricerca di un limite (narrativo e speleologico).
Ma all’immagine di Frammartino, ancora pulita e coerente, per quanto mitologizzata, Spina e Mazzone preferiscono un bricolage multiforme: immagini spurie, dall’archivio all’acido, nitide o bruciate, sovra- e sotto-esposte, negativi fantasmatici; il risultato di una ricerca che spinge la macchina da presa negli antri della Terra, e di nuovo in cielo fra venti e nuvolaglie, e ancora nei nascondigli d’archivio, portando all’accostamento di riprese eleganti e di altre che rimandano a una scomposizione digitalizzata della roccia, o a effetti speciali à la Bava.

Dove l’immagine cerca un aufhebung, un superamento hegeliano – trovando ossessivamente nuove forme, venendo marchiata dall’esplosione di materiali piroclastici, e rincorrendo la giusta strada nella sintesi degli estremi – si aprono questioni che avvicinano lo specifico all’universale: quanti e quali occhi guardano quel vulcano dove si nasconde ancora oggi la voce gutturale degli dèi? Cosa è sopravvissuto di quei quattro villaggi nascosti fra le regioni dell’Etna (la regione inferiore, la regione del fuoco, la regione deserta) che in pochissimi attraversano? Lo sguardo digitale del microscopio si alterna a quello analogico della pellicola, per offrire allo sguardo umano la bellezza chimico-mitologica della Terra: sguardi che sono dispositivi di controllo. Nel frattempo, la voce-off di uno scienziato (in inglese) e dello scrittore ottocentesco (in francese) contribuiscono a stratificare la narrazione mediale della memoria geologica del vulcano.

«Il film è diario, saggio, documento e messa in scena di documenti, finzione», dicono i registi: ma è anche l’evocazione di un immaginario sovra-storico, in cui Efesto batte il martello sull’incudine, e il rimbombo della sua fucina sale fra i camini dell’Etna fino a intralciare il cammino degli esploratori ottocenteschi. Noi, da spettatori, ci limitiamo ad ascoltare – ed è anche in questo importante lavoro sulla dimensione aurale che si traduce l’encomiabile sforzo di Spina e Mazzone. Lo scricchiolìo della Terra e il ruggito profondo del vulcano diventano colonna sonora dell’intero documentario, se di documentario si può parlare: in questi 67 minuti, così, ci viene concesso di incamminarci sulla loro traccia, sonora prima che visuale, e di interrogarci sul mondo che passa e su ciò che rimane. D’altra parte gli dèi non si vedono: gli dèi si ascoltano.
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