
512 Hours – Only in stillness we can recognize movement | Biografilm 2021
La nostra recensione di “512 Hours” (2020) di Adina Istrate e Giannina La Salvia, uno dei film selezionati per la 17ª edizione di Biografilm Festival, di cui Birdmen Magazine è media partner. I film in programma saranno disponibili online su MyMovies e in presenza.
Siamo alla Serpentine Gallery di Londra, nel 2014. Marina Abramovic, la “nonna della performance”, presenta la sua installazione dal titolo esplicativo 512 Hours: la performer, assieme ai suoi collaboratori, è presente alla Serpentine continuativamente per 64 giorni con una serie di attività (o in-attività) che coinvolgono lo spettatore, in un’operazione dai toni quasi mistici, in grado di attrarre 129916 partecipanti.

Il film, diretto da Adina Istrate e Giannina La Salvia, documenta l’installazione-performance in ogni suo aspetto, dall’allestimento preventivo, alle sue trasformazioni in corso, fino alla conclusione del tutto due mesi più tardi. Si tratta della prima opera in cui la performer è presente, dopo The Artist Is Present (2010), happening con cui si pone in continuità, cosi come il successivo The Abramovic Method (2012), per l’indagine condotta non tanto o non solo sull’arte e sul corpo dell’artista, ma sullo spettatore come membro attivo del processo di creazione artistica, che non ha come prodotto qualcosa di tangibile, ma solo l’esperienza in sé.

Il pubblico, da sempre e in ogni opera chiamato in causa dall’artista, è qui invitato a sperimentare una temporalità alterata (se non sospesa) e uno spazio a-dimensionale: la performance consiste infatti, attraverso una serie di tappe rituali, nell’entrare dentro al silenzio, una dimensione che, lasciati fuori i rumori, rimanda alla parte più profonda della persona, che allontanandosi per poche ore dalla realtà entra sempre di più in sé e nella performance di cui è parte.
E allora ecco che il film – e in questo sta il suo valore aggiunto – documenta non più solo un fatto, o un’installazione artistica (se così si può chiamare 512 Hours) ma un processo: lo snodo narrativo si concretizza non negli atti in sé ma nelle trasformazioni degli spettatori-performers, che si prestano ad interviste in cui raccontano quello che hanno provato e vissuto, attraverso alcune tappe semplici ma potentissime dell’arte performativa. La spoliazione dai propri beni materiali (l’orologio e qualsiasi dispositivo elettronico vengono lasciati da parte), il silenzio, l’immobilità, l’annullamento, la ciclicità e la ripetizioni di gesti che non hanno un fine, il bendaggio degli occhi per privilegiare altri sensi e sperimentare una forma di contatto viscerale, disturbante, quasi sovraumana e commovente.

Un documentario dunque che, anche se non intenzionalmente, partendo da 512 Hours si allarga e abbraccia la performance in generale come processo conoscitivo e terapeutico, ma soprattutto connettivo, in grado di mettere in relazione gli esseri umani ad un livello intimo e profondo, in grado di portare ad una percezione ricca e ampliata quel contatto interpersonale e quell’attenzione verso l’altro che negli impegni della vita quotidiana tendiamo a sottostimare. In definitiva, un documentario che ha il grande merito di fotografare con grazia e chiarezza quel processo tanto complesso quanto affascinante, difficilmente comprensibile se non esperito, che è la catarsi artistica in cui, in apparente contraddizione, il flusso, la vita e il movimento si percepiscono appieno soltanto nell’immobilità e nella spoliazione, in un processo che quasi trascende l’umano, per arrivare al divino.
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