
Il meridionalista dell’immagine – Vittorio De Seta maestro nascosto
L’embrionalità a volte è una virtù. A un cinema che si fa forte della sua potenzialità di rendere “immortali” le storie che racconta a volte sfuggono le piccole cose, le microstorie. Il cinema di Vittorio De Seta, nato a Palermo nel 1923 e morto a Sellia Marina il 28 novembre 2011, si lascia presagire invece come un cinema delle cose dimenticate, come un cinema delle fragilità, gettato in un’indagine umorale dei diversi mestieri del mondo contadino.

La filmografia di Vittorio De Seta attraversa oltre cinque decenni di storia italiana, sperimentando un gran numero di forme diverse, e spesso ibride, fra ciò che comunemente si identifica come documentario e ciò che ultimamente viene descritto come fiction. De Seta fu piuttosto discontinuo – e al tempo stesso organico – anche nel passare dal cinema, breve o lungo che fosse, alla televisione, spesso serializzata: ma l’impressione che si trae, da uno sguardo complessivo alla sua opera, era che il regista non distinguesse molto tra mezzo cinematografico e linguaggio televisivo, e si appellasse a un’idea più generale di audiovisivo.

La prima fase della produzione di De Seta è quella più nota a livello internazionale, anche grazie al plauso di Martin Scorsese che negli anni duemila ne sponsorizzò la riscoperta parlando del regista di Sellia Marina come di “un antropologo che parla con la voce di un poeta”. Si tratta di una decina di cortometraggi, la maggior parte dei quali girati in Sicilia con alcuni détour anche in Sardegna e in Calabria, che con fare enciclopedizzante raccontano la vita delle popolazioni del Meridione d’Italia: c’è Lu tempu di li pisci spata sui pescatori siciliani, Surfarara sui minatori, Contadini del mare sulla pesca del tonno, ma anche Pasqua in Sicilia sulle rappresentazioni popolari della morte e della resurrezione di Cristo. La grande rivoluzione di questi cortometraggi è l’assenza assoluta di uno speaker, di una voce narrante: la narrazione è affidata alle pure immagini, creando una forma di “cinema puro” forse ancora più rigorosa di quella intravista dallo stesso Bazin.

Lo step successivo della carriera di De Seta fu l’approdo al lungometraggio, con Banditi a Orgosolo: opera contestata, giudicata da alcuni troppo piattamente neorealista, da altri troppo poco, che nondimeno fruttò a De Seta una certa notorietà e il premio come Miglior opera prima al Festival di Venezia del 1961. Al centro del film il banditismo sardo, colto in una prospettiva né giudicante né eroicizzante. Per inciso, anche Banditi a Orgosolo, al pari dei precedenti cortometraggi, era stato completamente autofinanziato da De Seta, dopo un rifiuto da parte di Fellini di produrla con la sua neonata società.

Fu il successivo film di De Seta, Un uomo a metà, il più sperimentale di tutti, quello che da solo basta a mettere in chiaro come l’interesse del regista per le realtà del Sud Italia andasse in realtà colto all’interno di una più ampia attenzione per i vissuti di marginalità. Portando all’estremo certe intuizioni registiche di Antonioni e anticipando di fatto certo Bergman, Un uomo a metà raccontava in prima persona il vissuto di lacerazione di un giovane ragazzo psicotico, sospeso tra una sessuofobia assillante, il ricordo del fratello maggiore morto in guerra e scorci paesaggistici frastagliati che concorrevano a comunicare il suo stato psichico. A parte la Coppa Volpi al protagonista Jacques Perrin, Un uomo a metà fu quasi unanimemente stroncato, anche da parte di chi, come Guido Aristarco di Cinema nuovo, aveva elogiato Banditi a Orgosolo. Fra i pochissimi difensori del film, Pier Paolo Pasolini.

Profondamente scosso dall’insuccesso di Un uomo a metà, dopo aver girato in Francia L’invitata, un film su commissione presto ripudiato, Vittorio De Seta riuscì a fatica a stringere un accordo di collaborazione con la RAI per un’impresa che da più parti appariva impossibile: adattare, stavolta per il piccolo schermo, Un anno a Pietralata di Albino Bernardini, il racconto di un anno di insegnamento con metodi sperimentali in una delle periferie più disagiate di Roma. Dopo una serie di false partenze, anche grazie all’apporto del protagonista Bruno Cirino e dell’autore della fotografia Luciano Tovoli, De Seta trovò una formula creativo-produttiva irripetibile: una ventina di ragazzi di borgata venivano ripresi mentre davvero andavano a scuola, con le lezioni preparate dal protagonista assieme a un piccolo pool di esperti; nonostante gli incidenti di percorso, tutti riuscirono a concludere l’anno, sia nella narrazione che nella realtà dei fatti. Trasmesso in quattro puntate nel 1973, Diario di un maestro raccolse milioni di spettatori e si inserì nel dibattito allora molto acceso sull’innovazione dei metodi educativi.

Dopo il grande successo di Diario di un maestro, la figura di De Seta finì un po’ nell’ombra. Continuò a girare “docu-serie” ante-litteram per la RAI, come Viaggio in una scuola che cambia, una sorta di sequel in forma di reportage di Diario di un maestro, ma nessuna riscosse il successo del primo sceneggiato. Fra queste, particolarmente significativa, anche se passata sotto silenzio, fu La Sicilia rivisitata: un ritorno retrospettivo, a venticinque anni di distanza, sui luoghi dei primi cortometraggi siciliani, per constatare quanto il paesaggio naturale e umano fosse cambiato. Vedendo proiettati in quei luoghi i vecchi corti del regista, gli abitanti locali sembrano a disagio. Lo “sviluppo senza progresso” presagito da Pasolini si è ormai consumato.

Tra gli anni ottanta e novanta, De Seta si ritirò nella tenuta di famiglia a Sellia Marina, girando praticamente solo un lavoro significativo, il documentario In Calabria del 1993. Altri progetti, come un film sulla vita di San Paolo, rimasero solo su carta. Nel 2006, dopo innumerevoli vicende produttive, De Seta presentò a Venezia il suo ultimo lungometraggio, Lettere dal Sahara: un film certo più fiacco e sconnesso degli altri, ma tra i primissimi film italiani a raccontare l’immigrazione in Italia dal punto di vista di un migrante.

A Chiara di Jonas Carpignano. Il buco di Michelangelo Frammartino. Tornando indietro di appena un anno, anche Assandira di Salvatore Mereu – per non parlare del cinema di Alice Rohrwacher. A dieci anni dalla morte, inizia a cogliersi in maniera sempre più forte l’eredità di De Seta sul cinema italiano e internazionale. La sua più grande scommessa, e la sua più grande lezione per quello che è il “cinema del reale” dei nostri anni, è stata quella di abitare i luoghi che narrava – una scommessa raccolta in particolar modo da Carpignano, che è arrivato a trasferirsi a Gioia Tauro, dove sono ambientati i suoi ultimi film. Ma a tornare indietro fino ai primissimi corti di De Seta, fino a Isole di fuoco e Lu tempu di li pisci spata, emerge una lezione ancora più folgorante, un caso più unico che raro di decentramento registico: da quelle vecchie bobine in 16mm si sente ancora, sommessa ma calda, molto più che un’interpretazione documentaristica o uno sguardo d’autore – la voce in prima persona di un mondo perduto colta a pochissimi anni prima della sua fine. Le lucciole un attimo prima della loro scomparsa, se vogliamo.
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[…] in un momento di grave crisi personale, ai confini con la depressione. Un suo collega regista, il siculo-calabrese Vittorio De Seta che era a sua volta reduce dalle difficoltose riprese dei Banditi ad Orgosolo, gli suggerisce di […]
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