
A Classic Horror Story – Metacinema e pornografia della paura
A Classic Horror Story, regia di Roberto De Feo e Paolo Strippoli, è uscito recentemente per Netflix, raccogliendo pareri contrastanti. Un film profondamente divisivo (come, probabilmente, hanno voluto i registi). Birdmen Magazine ha deciso di pubblicare due pezzi: una recensione positiva, a firma di Paolo Prazzoli; una recensione negativa, a firma di Gianni Pigato. L’obiettivo è alimentare il dialogo.
Lo scorso 14 luglio Netflix ha rilasciato in tutto il mondo A Classic Horror Story, esperimento coraggioso e inquietante dei registi italiani Roberto De Feo (The Nest) e Paolo Strippoli. La trama è semplice: cinque sconosciuti si ritrovano grazie a un’applicazione sullo stesso camper per condividere una parte di tragitto. Il film è costruito secondo una struttura rigorosa: due parti distinte che ruotano attorno a un unico, grande colpo di scena.
La prima parte è una sorta di pars construens. I due registi usano lo scheletro semplicissimo della trama per allestire una rassegna di scene e situazioni ben note nell’ambito del cinema horror, con citazioni visuali chiarissime (come la tavolata malsana che rimanda a Midsommar). Stupiscono sia l’eleganza con cui sono state realizzate, sia la cura nel collegarle tutte all’interno di un unico flusso di suspense, senza soluzione di continuità. Ciò che è davvero disturbante non sono né le singole situazioni, né i topoi narrativi da cui lo spettatore sa cosa aspettarsi, ma il loro susseguirsi incalzante e senza tregua.

La seconda parte invece, è una pars destruens decisamente esplosiva e agguerrita. A partire dalla scoperta dei veri villain del film, De Feo e Strippoli si lanciano in una critica spietata e ferocissima contro il cinema italiano e soprattutto contro i suoi spettatori, abituati alla fruizione bulimica di stilemi, meccaniche e immagini già viste centinaia di volte. È una polemica che si serve delle armi collaudate del meta-cinema, costruendo con pazienza una stratificazione complessa di significati, con una profondità che si è vista molto raramente nei film italiani “di genere”.

Il perno che tiene insieme tutto è il colpo di scena centrale: momento fondamentale per l’equilibrio del film, esso fornisce una chiave di lettura totalmente diversa e aggiunge un livello di riflessione in più. In realtà la rivelazione di per sé non è così imprevedibile. Questo però, paradossalmente, è un vantaggio: lo spettatore riesce a intuirla non solo da vari indizi sparsi nelle vicende raccontate, ma anche grazie a elementi esterni al film in sé (le tagline dei poster e nel trailer, le dichiarazioni dei registi, il titolo stesso) in modo tale che, quando arriva, non ne sia depotenziata ma valorizzata. È da lodare, anche per questo, l’imponente lavoro di marketing e pubblicità che ha accompagnato l’uscita di A Classic Horror Story, e che assume così un valore diegetico sottile ma importante.

Il plot twist quindi colpisce durissimo non perché sia inaspettato, ma perché, già anticipato, genera tutta una serie di implicazioni e riflessioni che in questo modo non corrono il rischio di essere eclissate dalla sua pura potenza narrativa. La produzione raggiunge livelli altissimi soprattutto nella fotografia, curata da Emanuele Pasquet (Skam Italia), che predilige toni giallognoli e beige di giorno, per un’atmosfera malata e in decomposizione; di notte invece dominano i fortissimi contrasti tra blu e rosso, abbacinanti e ipnotici.

Tutto è (e vuole essere) molto americano, ma il cuore del film e il suo intento più profondo non potrebbero essere più autenticamente italiani. Se la narrazione, soprattutto nella prima parte, può sembrare abbastanza classica, è nella seconda che esplode la sua carica innovativa e si realizza uno dei meriti più grandi del film: nonostante A Classic Horror Story scelga di mettere la sua storia totalmente al servizio di un’idea (chiara e coraggiosa), non rallenta mai, anzi accelera e continua a fare paura.

Il meraviglioso finale, ambientato in una spiaggia, con una sequenza essenziale condensa in sé tutte le attualissime riflessioni sul cinema, la medialità e la cultura visuale che A Classic Horror Story ha accumulato nei minuti precedenti. È solo lì che si capisce qual è il vero villain del film: non Osso, Mastrosso e Carcagnosso (con tutto ciò che di terribile e reale si portano dietro), non gli stereotipi del cinema horror (molto abilmente ripresi o parodiati), ma l’indifferenza. Una delle cose più angoscianti che possano accadere al protagonista di un film è soffrire mentre gli altri, pur vedendo ciò che accade, scelgono di non intervenire. È la stessa indifferenza che ognuno può sperimentare guardando sui social video che raffigurano persone picchiate e ferite o che addirittura riprendono la loro morte. Lo schermo nero che offre quelle immagini è una barriera che ci difende da esse, dalla realtà che raccontano e che sembra destinata a non toccarci mai. A Classic Horror Story punta il suo fucile postmoderno contro questo schermo e lo distrugge con un proiettile dal tempismo perfetto, provocatorio, brutale.

Questo nuovo esperimento targato Netflix è un film che ci avverte: di fronte alla pornografia del dolore che invade le pagine dei giornali e la nostra quotidianità, non siamo mai solo spettatori. Siamo sempre, inevitabilmente complici, partecipi di una violenza anestetizzata, tutta da osservare. Ma se quella stessa violenza viene rovesciata contro chi la produce, è giusto esserne felici? È giusto godere, quando i buoni vogliono vendicarsi dei cattivi comportandosi come loro? L’ultimo geniale colpo di coda del film è andarsene senza dare allo spettatore la sicurezza di una risposta, ma problematizzando e provocando fino alla fine, fino a quando lo schermo ritorna a essere nero.
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