
A Classic Horror Story – Una classica storia italiana
A Classic Horror Story, regia di Roberto De Feo e Paolo Strippoli, è uscito recentemente per Netflix, raccogliendo pareri contrastanti. Un film profondamente divisivo (come, probabilmente, hanno voluto i registi). Birdmen Magazine ha deciso di pubblicare due pezzi: una recensione positiva, a firma di Paolo Prazzoli; una recensione negativa, a firma di Gianni Pigato. L’obiettivo è alimentare il dialogo.
La recensione contiene spoiler / I boschi dell’entroterra calabrese da film di mafia e una certa estetica del satanismo direttamente dalla prima stagione di True Detective (lì i satinasti erano fuori campo, in campo solo i cadaveri da loro generati e alcune fotografie che li ritraevano con maschere di legno e corteccia). Lo snuff movie e Le colline hanno gli occhi. Ari Aster e Robert Eggers. L’horror etnografico. Da Netflix disinnescato e re-innescato. Esploso ed imploso.
Per la regia di Roberto De Feo (il suo precedente film era stato The Nest – Il Nido) e Paolo Strippoli, lo scorso mercoledì 14 luglio 2021 è stato reso disponibile alla visione su Netflix A Classic Horror Story. Una classica storia dell’orrore che non è un film dell’orrore, ma un pamphlet, quasi un’invettiva, contro il cinema italiano, i suoi produttori, i suoi attori, i suoi autori, Netflix e gli stessi spettatori, sia quelli da piattaforma sia quelli da sala. E pure verso di me e tutti gli altri che scriveranno riguardo questo prodotto audiovisivo. Mi permetto la prima persona in questo gioco super meta, scatenato dal finale meta di un film già meta, per rendere meta anche questa recensione almeno un po’.

È tutto forse un po’ troppo paraculo viene da pensare, ma il film, pur essendo iper-derivativo e nemmeno così originale (Quella Casa nel Bosco ha 10 anni e girava intorno più o meno alla stessa idea), non può essere criticato per esserlo, perché nel suo essere meta – la storia cui assistiamo è frutto della fantasia e della voglia di fare cinema d’orrore d’un ragazzetto cresciuto a pane e cinema in una Calabria deserta dove esiste solo la ‘Ndrangheta che ha poteri soprannaturali, quattro contadini non scolarizzati e un mucchio di imbecilli balneari di smartphone dotati – si assolve, e assolvendosi si concede delle forme di genialità inattese.
La genialità è però un coito interrotto, perché, se i già citati Eggers e Aster, rispettivamente con The VVitch e Midsommar, fanno il genere con la serietà e con la consapevolezza divertita che il sistema produttivo in cui sono inseriti gli consente e a sua volta pretende, De Feo e Strippoli non ce la fanno ad andare fino in fondo con il melodramma orrorifico. Si bloccano, accettano in fase di scrittura l’exit strategy dello scherzo, caustico, certo, e violento altrettanto, anche verso loro stessi: autori ammazzati – come Fabrizio, il regista del film nel film, interpretato da Francesco Russo -, italiani trentenni e quarantenni senza potere d’acquisto, precari e condannati al precariato e a un sistema composto da politici mafiosi, scortati dalle forze dell’ordine a rendere bestie sanguinarie e vendicative le ragazzine bocconiane stagiste delle agenzie di consulenza finanziaria.

Che mondo di merda ci dicono in continuazione De Feo e Strippoli. Anzi: che Italia di merda. Ma poi alla fine ci dicono che scherzavano. Eppure c’era l’horror profondo, disturbante. Eppure c’è. C’è l’intuizione della storia antica di Osso, Mastrosso e Carcagnosso. C’è l’intuizione della metafora: gli occhi, le orecchie e la lingua portati via dai tre cavalieri malvagi. Il male ci toglie gli strumenti utili a raccontare e ricevere il cinema, a ricevere e raccontare le storie. A raccontarci del nostro essere uomini e a proporci un domani differente, costruendo e ricostruendo una forma di immaginario collettivo condiviso. C’è tutto per un horror serio e consapevole e A Classic Horror Story è serio e consapevole quando è horror. Ma è un film horror di due italiani che fanno parte della generazione degli sconfitti e allora è sadomasochistico e si sabota al fine di dichiarare il suo odio immenso al sistema industriale da cui Netflix l’ha accolto, per portarlo nel mondo. Fare un film targato Colorado e distribuito da Netflix per dei creativi però non è poi così tanto da sconfitti, è molto più onestamente simile a vincere. Dunque bisognerebbe ammetterlo e avere il coraggio di vincere orgogliosamente, senza paraculismi. Come hanno già vinto Aster e Eggers.

Esiste il pubblico infame che commenta il film senza averlo visto, come esistono i produttori infami che ti chiedono se «ce l’hai qualcosa cosa alla Jeeg» (cito testualmente Pietro Castellitto intervistato per BadTaste.it da Francesco Alò), quando prima di produrre Lo Chiamavano Jeeg Robot Mainetti è dovuto praticamente impazzire per trovare finanziamenti al suo progetto (lo racconta a Report nella puntata dal titolo Che Spettacolo!). I sistemi che non funzionano o che funzionano male, si cambiano o si provano a cambiare, prendendosi le proprie responsabilità, accettando la battaglia, combattendola e accettando anche questa ed altre pessime recensioni. E vincendo – quando si vince – con grande orgoglio.
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